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del 02/07/97
Famiglia Cristiana
Esclusivo
La mia anima in gioco
Intervista a Claudio Baglioni
Dalla prima metamorfosi degli anni Settanta a quella maturata attraverso la Tv, il celebre cantautore racconta la sua vita e i suoi sogni.
di Gegi Vesigna
Claudio Baglioni non ama le interviste e i servizi fotografici. Chi non lo conosce lo pensa timido e introverso; chi lo conosce più da vicino è meno perentorio, ma sa che in fondo un po’ lo è. La recente metamorfosi che l’ha reso protagonista prima della trasmissione televisiva Anima mia, e poi del disco Anime in gioco, già saldamente al comando delle classifiche di vendita, ha perciò stupito un po’ tutti. In realtà questa è la seconda metamorfosi di Claudio.
La prima avvenne agli inizi degli anni Settanta, un po’ prima del grande successo di Questo piccolo grande amore: via gli occhiali neri con le lenti spesse, via quei capelli troppo corti per essere tenuti lunghi. Infine: un abbigliamento più casual. In quell’occasione, per voltar pagina, Claudio bruciò la sua Citroën Due Cavalli gialla, detta "Camilla".
Claudio, che differenza c’è tra il Baglioni che guidava la "Camilla" e quello di Anima mia?
«Con "Camilla" finiva per me il tempo della cavalcata spensierata di chi esce dalla "stalla" e si trova ad affrontare il mondo esterno con la sensazione fresca e stordente delle prime volte. Questo fu uno dei periodi più sfrenati, più "scapigliati", come si sarebbe detto molti anni fa, fino al punto di avere poi la sensazione che qualcosa stava cambiando. Avevo già registrato il mio primo disco di successo, e ne feci un altro eleggendo la mia automobile a personaggio principale dell’intero album. L’album si intitolava Gira che ti rigira amore bello e Camilla era la mia protagonista.
Subito dopo preferii decretare una sorta di taglio netto con quello che era accaduto perché il mio mondo cambiava: forse cambiavo io, ma cambiavano soprattutto le cose che avevo intorno. Ci fu, allora, il famoso "rogo" di Camilla. È probabile che nel tempo ci siano stati altri segnali di questo tipo. Uno fu certamente quando decisi spontaneamente di tagliarmi i capelli (era tra l’84 e l’85): tutti erano contrari perché sembrava un nuovo "caso Sansone"... Oggi come oggi, sembra che questa "purga" televisiva di Anima mia possa segnare un altro passaggio, un’altra rotazione per quello che riguarda la mia vita e il mio mestiere».
In un romanzo, I ponti di Madison County, il protagonista, un fotoreporter giramondo, dice: «Ho fatto tanti sogni bellissimi. Non si sono avverati. Però li ho fatti!». Tu, Claudio, hai fatto sogni che non si sono avverati?
«Ho avuto la fortuna di fare tanti sogni, sogni bellissimi. Molti di questi non si so no avverati, altre volte si sono avverate cose che non ho sognato. Una delle poche certezze che possiedo è che la vita è "sapere" di essere capaci di sognare: il sogno del dopo risveglio, il sogno che dura una giornata intera. Sapere di poter progettare. Di illudersi di poter mettere su un determinato tipo di concerto, cercando di intonare tutti gli aspetti, anche quelli paralleli, anche quelli non conosciuti rispetto al programma. È come scrivere continuamente una nuova canzone, è l’effetto inebriante di poter riempire un vuoto senza sapere la dimensione del vuoto stesso. Ecco, il sogno è questo: è una progettazione continua».
I detrattori di oggi hanno scritto che il tuo disco è la dimostrazione che aveva ragione Bennato quando, peraltro provocatoriamente, cantava "sono solo canzonette". Secondo te, sono critiche obiettive o ideologiche?
«Chi fa un mestiere come quello che faccio io è, in ogni caso, un bersaglio. La cosa importante, per essere impallinato il meno possibile, è diventare un bersaglio mobile. Per la necessità di incasellare tutto, tutti noi personaggi noti siamo sottoposti a questo delirio dell’appartenenza, per cui bisogna essere per sempre o bianchi o neri, o alti o bassi, o larghi o lunghi. Nella mia vita mi sono state via via appioppate moltissime etichette, anche politiche, non solo artistiche. Mio malgrado, sono stato "attraversato" da tutti i partiti. Diffido dalle appartenenze troppo strette, specialmente da parte degli artisti, perché considero gli artisti delle sentinelle.
Coloro cioè che devono svincolarsi dalle "parrocchie" politiche o culturali, proprio perché devono essere delle voci "soliste", un po’ fuori dal coro. Altrimenti, se diventano degli artisti di regime come vorrebbe certa intellighenzia... Ho detto che ne ho passate di tutti i colori. All’inizio dicevano che ero un estremista di sinistra, poi sono diventato democristiano, poi repubblicano, poi sono stato amico dei socialisti, poi ultimamente ex missino o addirittura vetero-comunista. Col mio bisogno di uscire fuori, di essere considerato uno che sta da un’altra parte e che, anzi, quando viene inserito in una di queste parti tende automaticamente a fuggire per diventare semmai bersaglio, almeno mobile...».
La gente ha scoperto che sai anche ridere. Da ragazzino ti avevano soprannominato Agonia per il tuo aspetto e le tue canzoni, anche se tu ne componevi di allegre che nessuno mostrava di apprezzare. Dal canto suo la critica ha smesso di snobbarti proprio adesso che hai inciso un disco apparentemente disimpegnato. Ci capisci qualcosa? Dillo con franchezza.
«Ad ascoltare le mie canzoni, quelle del ’68, già c’erano degli episodi preoccupanti di "srotellaggine", che mostravano cioè qualche rotella fuori posto. Sono delle canzoni assurde, di nonsenso, che si sono mantenute poi in tutti i miei album. È vero che poi la presenza in alcuni di questi miei album di canzoni "monumento", canzoni d’amore o canzoni che erano più ingombranti di queste altre più leggere, prendeva il sopravvento e le altre si notavano di meno. Però è il percorso della critica e di chiunque esprime un’opinione critica che è allarmante. Ho la sensazione che si stia diventando sempre di più distributori permanenti di opinione: basta mettere una mezza monetina e ci sono almeno duemila persone che esprimono opinioni su tutto, specialmente su quello che non conoscono.
Con grave imbarazzo, sia per quanto riguarda le critiche negative sia per quelle positive, mi trovo ogni tanto a dover essere "maneggiato" da persone che sanno pochissimo di me e che conosceranno appena due o tre titoli delle mie canzoni. Questo è veramente gravissimo, soprattutto se penso che questo procedimento viene usato per qualsiasi informazione, qualsiasi notizia venga data. La mia decisione, in questa rabbia, è stata quella di staccarmi da questi giudizi: nel senso che quando li sento informati allora continuo a leggerli, imparo e cerco anche di trovare dei correttivi, altrimenti... Di luogo comune moriremo tutti, anche quando avranno inventato le medicine per sanare tutti i mali del mondo».
Claudio, sei stato uno dei personaggi più bacchettati dal conformismo della politicizzazione selvaggia degli anni Settanta e allo stesso tempo il personaggio più amato dai ragazzi non politicizzati. Forse è per questo che sei stato etichettato "di destra". Non trovi che quello di etichettare fatti, oggetti e persone sia, dopo il calcio, lo sport più praticato nel nostro Paese?
«Sì, negli anni ’70 c’è stato un bisogno eccessivo però forse anche naturale perché, in fondo, l’impegno era quello di migliorare il mondo, anche se già in quell’epoca si dicevano ingenuamente delle sciocchezze, tipo "L’immaginazione al potere": sappiamo quanta antitesi ci sia tra questi due aspetti, queste due parole. Il potere è proprio una costruzione sistematica, fredda del consenso, della potenza; l’immaginazione è più un fatto passionale, istantaneo, quasi nudo nella sua manifestazione. Io ho vissuto quegli anni così complessi cercando di capire. In fondo, il fatto di non avere un’appartenenza manifesta m’ha portato spesse volte ad essere rigettato sia da una parte sia dall’altra.
Raccontavo spesso un aneddoto. Nel ’68 c’erano spesso assemblee nelle scuole. Io mi mettevo in una posizione non tanto di moderato ma di moderatore, perché c’era un processo continuo di separazione più che di comprensione. C’era chi si presentava con la fiammella dell’Msi e chi col distintivo di Mao. C’era un’ostilità preconcetta. Siccome io non ero né da una parte né dall’altra, rischiai di prenderle alternativamente da tutte e due le fazioni. Questa è stata un po’ la storia. D’altra parte spero che tutto ciò capiti il meno possibile perché noi abbiamo una certa tendenza a radicalizzarci. C’è questa abitudine anche nel calcio: non si tifa per, si tifa contro. Spero che un giorno questa ostilità nei confronti dell’altro, del diverso, non trovi più ragione di esistere».
Baglioni e sé stesso. Come ti vedi davanti allo specchio? Sei credente? Ti senti in qualche modo prigioniero di un sistema di vita che non ti piace?
«Sono i momenti più tragici perché è un momento di misurazione con sé stessi. Mi vengono molti pensieri: il tempo che va, le cose che si guadagnano, le cose che si perdono. Sì, io sono credente e, come forse per tutti quelli che hanno bisogno di credere, sono in mezzo alla strada a cercare, e quindi a dialogare con me stesso, con la mia religiosità e, in fondo, con tutto ciò che è il senso dell’origine e della destinazione.
No, non mi sento prigioniero, ma al contrario una persona che ha dei privilegi e che fa un mestiere che è il migliore dei mestieri che potesse augurarsi. Non ho praticato compromessi di grande rilievo, ho il vantaggio di avere un lavoro che ritengo entusiasmante, di essere visto e ammirato: era quello che volevo all’inizio.
Ho cominciato a prender la chitarra in mano perché volevo l’attenzione delle ragazze e la stima dei ragazzi. Cosa non mi piace? Qualche volta sento il disagio nei confronti di un mestiere per il quale forse non sono stato "costruito" interamente. Certe volte la notorietà mi disarma, perché mi trovo indifeso, incapace di rispondere in maniera alquanto sensata».
È vero che, quand’eri ragazzo, tua mamma ti diceva: «Claudio, scrivi canzoni, che a studiare ti rovini gli occhi!»?
«Vero, verissimo. Mia mamma è stata la mia prima "fan". E poi aveva davvero paura per i miei occhi!».
In che rapporti sei con Paola, la tua prima moglie, con tuo figlio, con gli affetti del passato?
«Gli affetti di prima, gli affetti di oggi: sono le cose che mi hanno formato, sono come i miei tratti somatici. Io appartengo a loro come loro appartengono a me nei ricordi, nelle frequentazioni. Una maniera di rappresentarmi in Anima mia la devo ai miei "ieri", quando con il mio amico Livio con la telecamera scimmiottavamo la Tv».
Se dovessi scrivere oggi il tuo futuro epitaffio...
«Ce n’è uno che cito spesso dall’Antologia di Spoon River, quello della tomba del suonatore Jones che alla fine dice: "D’altronde, se la gente sa che sai suonare, suonare ti tocca tutta la vita". Questo è il nostro destino, continuare sul percorso che già si è cominciato».
Il 1997 è stato indubbiamente l’anno di due uragani: al cinema Il ciclone di Pieraccioni, alla Tv e nel mondo della musica Anima mia. C’è, a tuo parere, qualche attinenza tra questi fenomeni probabilmente irripetibili?
«Qualcuno me l’ha spiegato, cercando di paragonare alcune cose che accadono nel film e nella trasmissione, come la voglia di sorridere, di non ripiegarsi, di un bisogno non tanto di essere superficiali, ma un po’ sollevati rispetto alle cose che viviamo».
Claudio fine secolo: cosa vede su quel Poster sul muro del metrò?
«Mi sembra che stiamo correndo incontro ad una sorta di ecumenismo. C’è una ricerca di armonia generale e, siccome siamo proprio a fine secolo, una rivisitazione di tutto ciò che è passato. Stiamo insomma imboccando un ponte e ci guardiamo indietro per l’ultima volta. Per me stesso c’è una consapevolezza di aver vissuto già un bel numero di anni gagliardi, molto pieni di avventure e, a volte, di disavventure. Sicuramente anni utili. Ho una sorta di sogno ricorrente, che poi è un sogno a occhi aperti: sono bendato e sto cercando di finire una canzone; la sto eseguendo, ma essendo bendato non so chi ho davanti. Non so se è un plotone o se è un pubblico, non capisco. Sono sicuro però che questa è un’esecuzione a vita e, in ogni caso, spero sia stata e sia una bella esecuzione».
Articolo segnalato da Caterina.