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del 20/04/84

Il Messaggero
Questo pop di casa nostra

di Claudio Baglioni

Per anni la musica italica di tipo leggero, per il resto del mon-do, è stata allo stesso livello, che so, della musica turca o paki-stana. E a parte Volare e qualche altra cosa, quando chiedevo, girando per paesi stranieri, "che si conosce qui di canzone ita-liane?" c'era da provare sconforto e, se non fosse che la vita è un bene supremo ed è troppo bella da vivere, da svenarsi nel bagno. Così gli spettacoli all'estero di tanti cantanti italiani, reduci da clamorose tournees in Australia, in Germania o in America, erano per lo più effettuati davanti alla nostalgia pa-gante e seduta in teatro di emigrati col vestito buono e il paese lontano negli occhi. Un tricolore ai lati del palco, l'inno di Mameli come sigla iniziale, poi qualche battuta accattivante e ruffiana e il successo è così assicurato. Ma non è affatto niente sicuro, anche se qualche cosa si muove, ottenere un gradimen-to all'esterno o, come si dice, "varcare i confini" con le canzoni italiane di adesso. Le case di dischi son quasi tutte multinazionali (con capitali americani) e preferiranno, suppongo, espor-tare più che importare. Quando, poi, ci si accinge a tentare la carta straniera bisogna esser pronti a cantare in tutti i dialetti del mondo (compresi quelli della Costa d'Avorio) che l'italiano lo capiscono in pochi. Di contro si consuma in Italia mediamente il 70 per cento di musica di importazione. E non c'è nemmeno una legge, come accade in altre nazioni, a protezione e difesa del prodotto locale. Anzi, siamo arrivati addirittura a comprare O sole mio prodotto e cantato in americano. Ma questo è un paese ben strano che importa pure arance e limoni e ne getto via un pò di quei suoi coi camions nelle scarpate. Forse è un pensiero banale e, m'hanno detto, da ignorante, però questa roba, non sarebbe assai meglio tenerla e darla ma-gari, a chi ne ha bisogno?
Ho letto, ma non credo d'avere capito bene, che è una faccen-da di equilibri economici. Cioè un mistero o una buggeratura. Sarà che da mio zio non si buttava niente e, ad esempio, col pa-ne che restava in avanzo si facevano le panzanelle e le ministre di pane. E le cose, quelle proprio tremende, si gettavano ai por-ci. La vita, pensavo, è davvero un ciclo continuo perché nean-che del porco si butta via niente. Adesso che la moda va tanto di moda e quella italiana conquista ogni giorno di più il globo terracqueo, si parla tanto di made in ltaly (pensate che anche per dire di una cosa fatta in Italia abbiamo usato una parola inglese!). Ma la nostra classe politica non ha fatto niente per la musica più popolare. Anzi l'ha, addirittura, penalizzata e solo quando ha bisogno di voti, adesioni e consensi, allora, anche questi "cantori" fan comodo. Un paese che non sa esportare la propria cultura di tutti i giorni e quindi pure la musica pop, non ha compiuto per intero il cammino e non lascia radici. Io, con l'entusiasmo confuso e un po' ingenuo dei primi vent'anni, in Polonia feci proprio il contrario. Alla fine dello spettacolo, un insieme di rock, percussioni e chitarre distorte, annunciavo: "Piesni popularne wloskie" (che vuol dire canzone popolare italiana). E attaccavo con fiero cipiglio: "Gobbo lu padre, gobba la madre, gobba la figlia della sorella...".

Articolo segnalato da Cristiana.