torna al menu
torna all'elenco
stampa
del 01/01/81

Playboy
Playboy intervista: Claudio Baglioni.
Questa è la prima confessione-intervista con il più schivo dei trovatori italiani: dopo un silenzio di tre anni, è esploso con un ellepì che ha fatto breccia in un pubblico oceanico.


(nel terzo paragrafo per un errore di stampa, si ripetono le prime parole del paragrafo precedente)

Romano, figlio di un carabiniere e di una sarta non romani, non cresciuto all'ombra della Scuola Romana, Claudio Baglioni è uno dei fenomeni più sconcertanti della nostra canzone. Come un anglosassone, è sempre riuscito a difendere la sua vita privata, la sua serena monogamia, le sue vacanze tranquille, i suoi ritiri di lavoro molto saggi, che si protraggono addirittura per anni. Cosi, non e' mai finito in una cronaca rosa, 'n un trafiletto scandalistico, in uno di quei falsi fidanzamenti o tenere amicizie che certi press agent combinano talvolta con certi giornali; non ha mai stancato il suo pubblico. A giugno, il mese più difficile, perché troppo vicino alle follie consumistiche dell'estate, in un momento in cui i giovani hanno già deciso o subito le loro scelte, Baglioni ha fatto irruzione con Strada facendo, il suo ultimo LP, appunto, dopo quasi tre anni di assenza dal mercato. Prima tiratura: 200 mila, almeno 165 mila prenotazioni... cifre da capogiro, sembra che a tutt'oggi ne siano state vendute più di 300 mila copie. Successo travolgente, anche di critica. Pare che Lucio Dalla, un poeta sicuro, si sia precipitato al telefono, dopo aver ascoltato Strada facendo, per dirgli: “Lo avevo detto che sei grande, anche nei testi”. E oggi i ragazzi canticchiano poesie come questa: “I vecchi sulle panchine dei giardini / succhiano fili d'aria a un vento di ricordi / Il segno del cappello sulla testa da pulcini...”
Baglioni, lo abbiamo detto, non ama parlare di sé; forse non l'aveva mai fatto prima. Ma con PLAYBOY, cedendo all'amicizia di Piergiuseppe Caporale, che lo ha intervistato, è sicuramente andato più in là. Nonostante i successi (la sua carriera ne è costellata, l'ultimo è soltanto una conferma) è rimasto il bravo ragazzo acqua e sapone, il cucciolone degli esordi; oggi ha trent'anni, ha una moglie, Paola, che è anche la sua musa, ha un cane... Ascoltiamolo, questo fenomeno.
Baglioni, lo abbiamo detto, non ama parlare di sé; forse non l'aveva mai fatto prima. vato, realizzato, che fa business (dietro i suoi dischi c'è un giro di miliardi), ma deciso fino in fondo a non lasciarsi condizionare dalle regole commerciali del gioco, a difendere non soltanto la sua privacy, ma anche la creatività, e quindi le nevrosi, le febbri, i voli, senza i quali, certamente si può, e forse meglio, fare l'amore, ma resta più difficile descriverlo, cantarlo. Questa sua prima lunga intervista è anche “illustrata” da un autore di eccezione (potete leggerne il nome a fianco della prima foto, partendo da destra): David Bailey, il grande fotografo che è anche una firma di PLAYBOY Usa. Bailey, che è amico di Baglioni, ha realizzato, dietro sue richieste, la foto di copertina di Strada facendo... Anche questo, insomma, andava sottolineato, perché rende un altro lato molto importante del carattere di Baglioni: uno che vuole il meglio, da sé e dagli altri; non per nulla gli arrangiamenti del suo ellepì sono stati curati, negli studi di Oxford e Londra, da Geoff Westley, il numero uno oggi nel mondo.

---

PLAYBOY: La famiglia, l'adolescenza, le prime esperienze... anche nel tuo ultimo disco, Strada facendo, c'è molto, moltissimo di te. Il poeta parla sempre di sé?
BAGLIONI. In genere si tratta di storie parallele, rispetto a quello che poi esce in un ellepì: è chiaro che non ci sono delle verità assolute. Ma questo è forse il mio primo lavoro completamente meditato: molte delle cose che ho fatto prima nascevano anche per rabbia.
PLAYBOY: Anche Questo piccolo grande amore era fatto di rabbia?
BAGLIONI: Soprattutto Questo piccolo grande amore! Era fatto di rabbia, di incazzatura nei confronti di un determinato ambiente che non mi permetteva di avere successo... anche nei confronti del pubblico che non decretava il successo ed il gradimento a quello che facevo, alle mie canzoni, al mio modo di cantare, di vestire. Fare quest'ultimo disco, e qui non mi crederà nessuno, per me è stata una vera e propria ragione di vita.
PLAYBOY: Da tre anni non ti facevi più vivo, e qualcuno già pensava che la tua vena creativa fosse ormai spenta, esaurita dal successo...
BAGLIONI: Sì, è stata lunga, e ne ho passate veramente tante: ho scritto delle cose parallele a questo disco, delle autoconfessioni, roba quasi da sedicenne, ho meditato sulla vita: la sentivo come una cosa dolorosissima, ma stupenda da vivere. Il mio disco non si concludeva mai: o meglio io facevo di tutto per non finirlo. Ho sofferto fino all'ultimo; ancora adesso mi chiedo come sono riuscito a cantare i miei "pezzettini autobiografici": continuavo a piangere perché non riuscivo a finirli.
PLAYBOY: E' vero, tu piangi spesso, soprattutto quando lavori. E' la cosiddetta commozione creativa. O qualcos'altro?
BAGLIONI: Forse è un fatto di pudore, forse è un fatto nervoso... non so. Questa volta, poi, ho sofferto a livello generale, di vita: c'era una tensione estrema in tutto quello che stavo facendo, ed è proprio per questa tensione generale se, a dieci anni di distanza da Questo piccolo grande amore, sono riuscito ancora a tirare fuori materiale vero. Non so se in questi cinquanta stramaledetti minuti di musica, "terrorizzanti" perché riconduci tutta la tua vita in quei solchi, si senta tutta la tua vita in quei solchi, si senta davvero quello che ho passato. In ogni caso, questa volta ho avuto un approccio differente con la gente: l'ho conosciuta con la bontà, ho trovato un sacco di gente buona e mi sono reso conto che la gente cattiva non esiste. Esiste solo gente che non sa tirare fuori la bontà, gente che si traveste.
PLAYBOY: Normalmente tutti coloro che scrivono d'amore sono dei poligami: hanno bisogno dell'ispirazione del momento, del partner del momento. Tu come fai a scrivere d'amore pur essendo un animale monogamo?
BAGLIONI: Per la verità è la prima volta che mi pongo questo problema: cioè me l'hai posto tu ed ora me lo pongo anch'io. Mah... sono dell'idea che pur vivendo una lunga storia di fedeltà con la stessa persona (che può essere una donna, un amico, un gruppo di amici, un cane...) non si possano evitare le complicanze, le storie parallele che addirittura nascono più sanguigne rispetto alla situazione reale che vivi. Con Paola, e solo con lei, vivo da parecchi anni, e non ho avuto finora storie d'amore parallele, nascoste, ma mi sono trovato a vivere, insieme a lei, altre storie d'amore: credo che non esista una storia sola, ma che ciascuna di esse ne contenga ventimila altre, perché la persona con cui vivi "è" ventimila persone. E' strano però, non ci avevo mai pensato: mi sono accorto adesso che la persona con cui vivo è così e che anche io sono così... anche nei momenti di non amore, di odio, di scazzo, quando ti viene voglia di dire basta e però stai sempre lì...
PLAYBOY: La poesia del quotidiano, del vissuto, d'accordo, tu sei un cronista dei sentimenti. Eppure vivi abbastanza isolato, lontano dalla vita pubblica, sei uno che sta molto in casa.
BAGLIQNI: Ho sempre avuto questa specie di ansia; molti mi hanno detto "stai sempre lì, ma che diavolo fai sempre in casa, esci". Eppure io vivo moltissimo, incontro molta più gente di quelli che dicono "noi usciamo sempre". Forse, di solito, si esce solamente la sera, si incontrano sempre le stesse persone... io, invece, ho conosciuto talmente tanta gente che non ricordo neppure più quanta, dove e come. Ed io l'ho voluta conoscere tutta questa gente, non ho mai avuto paura di conoscere una persona nuova: semmai ho sempre avuto l'ansia di dire "oddio, probabilmente questa serata stupenda finirà, diventerà quasi un mito e resterà l'ansia di non poterla protrarre continuamente, in ogni momento della vita".
PLAYBOY: Quanti anni hai?
BAGLIONI: Trenta. Ma questa paura non mi passerà mai perché so che la gente non c'è per sempre. Capito? Tutta la gente che incontro non c'è mai per sempre.
PLAYBOY: Ma non pensi che quando finisce un incontro, prima o poi, ne comincerà un altro?
BAGLIONI: Ma perché non continua quello? E' una cosa che mi rompe le palle in maniera incredibile: quando ti scattano quei meccanismi stramaledetti e stupendi di affetto, di voglia di stare insieme... magari stiamo talmente bene insieme, e sapere che domani non c'è più la stessa situazione, che sono passate ventiquattr'ore e che non è più la stessa cosa... Quando prima ho detto che non volevo finire questo disco era proprio per questo motivo: è un momento che finisce, è un momento che perdi per sempre.
PLAYBOY: I tuoi sogni sono belli o brutti? O non sogni?
BAGLIONI: In linea di massima non sono proprio positivissimi: sono anche quelli sempre pieni di tensione. Rare volte ho sognato cose sgradevoli; e poi faccio sogni a puntate, incredibili. Per tre mesi sono capace di sognare sempre la stessa cosa: e me li ricordo anche abbastanza bene perché ogni mattina, appena sveglio, ci penso su, cerco di fare un salto all'indietro.
PLAYBOY: Credi nei rapporti fra la parapsicologia ed i sogni?
BAGLIONI: Non so nulla della parapsicologia: non sono mai riuscito a farmi affascinare da queste storie. Ho creduto molto più, finora, a quello che avevo di parole, di gesti, di occhi... Forse perché ho sempre incontrato gente che è riuscita a farmi apparire la parapsicologia come una cosa assurda.
PLAYBOY: E' vero che non si muove paglia che Paola non voglia?
BAGLIONI: Bella questa! No! Il mio rapporto è abbastanza complesso, molto meno definibile di così; potrei dire, forse, che Paola, per me, è una guida, una verifica, una continua ispirazione, una musa, ecco...
PLAYBOY: Molta gente parla però di te come di un debole, di uno che ha bisogno di una persona forte vicino...
BAGLIONI: Probabilmente lo sono, ma nella cosiddetta misura in cui lo siamo un pochino tutti: io sospetto, invece, che, dietro a questa mia presunta, apparente, debolezza si nasconda esattamente il contrario. Sono un tipo che sa quello che vuole, ma sono anche un creativo... e la creatività non è uno stato di grazia, ma qualcosa che si paga. Sempre.
PLAYBOY: Artisticamente come vivi? Mi spiego: ci sono alcuni cantautori che dicono di non ascoltare niente degli altri; c'è chi fa finta di non conoscere niente; c'è chi fa finta di conoscere tutto.
BAGLIONI: Io non posso fare finta: in effetti ascolto abbastanza poco, ma non so perché, forse per pigrizia, forse per paura. Però quelle poche cose che ascolto le ascolto veramente.
PLAYBOY: E chi sono questi pochi?
BAGLIONI: Non è facile. Ho l'impressione, in questo momento, di tirarmi dietro un fardello eterogeneo e invecchiato. Forse i miei gusti sono rimasti un po' indietro. La mia cultura musicale è stata quella che è stata: Villa, Consolini, Sanremo, gli anni 60, Fidenco, Pavone, Morandi, i primi due dischi dei Beatles, quelli con il cantante Tony Sheridan, Beatles poi. Questo zibaldone musicale è la mia origine... c'è stato di tutto. Devo dire però di aver avuto un grosso sbandamento per una certa musica negroamericana, per Ray Charles in particolare.
PLAYBOY: Dal punto di vista vocale hai alcuni accenti alla Ray Charles, delle somiglianze tecniche, questa tua strana rocaggine... ma ci sono due Baglioni: l'autore e il cantante.
BAGLIONI: Ho sempre difeso a spada tratta questo mio ruolo di interprete, di cantante: è una cosa nella quale credo da sempre. Credo soprattutto nella possibilità di cantare qualsiasi cosa, alla mia maniera. Tutto ciò deriva dalle mie corde vocali fatte in un certo modo: ma sicuramente anche dall'averle affinate, dall'aver vissuto, dall'aver sentito, anzi cantato, molto, moltissimo. Io ho cantato veramente tanto, anche in questi due anni e mezzo ho cantato come un disperato, addirittura forse non ho mai cantato tanto, al limite di rottura delle corde vocali, se mi consenti l'enfasi...
PLAYBOY: Eppure, al tuo debutto, quando sei nato artisticamente, il canto non era così importante, c'era il boom dei cantautori...
BAGLIONI: Ho sempre rifiutato l'etichetta della Scuola Romana, ho sempre negato di considerarmi un cantautore, sono cose che mi hanno sempre rotto le scatole... E non tanto per distaccarmi, per avere uno spessore diverso, ma perché sentivo e sento di avere delle origini differenti. Non pretendevo di provenire dal cosiddetto "sogno americano", dai poeti maledetti o dai californiani beat... Kerouac, "on the road" e così via: io questa gente non l'ho mai conosciuta. L'ho conosciuta ora perché ogni tanto mi compro un pocket (questa cultura da aeroporto, da stazione: tu devi prendere un treno e compri un pocket, affascinato dal nome americano). La voce invece è stata la mia costante: mi ricordo che quando avevo quattro, cinque anni mi infilavo nei coretti di mio padre e mia madre. Questo fatto del cantare è sempre stato e sempre sarà la mia molla principale: l'aver scritto musiche e testi è arrivato immediatamente dopo. In questo senso, mi impressionano molto più gli interpreti degli autori.
PLAYBOY: Nel panorama italiano chi preferisci?
BAGLIONI: Preferisco ancora una volta quelli che cantano: Pino Daniele che è un cantante "grande", Lucio Dalla che è un cantante "grande"... poi ho degli amori personali, che non sono però totali, ma motivati da altre sensazioni.
PLAYBOY: Qualche esempio?
BAGLIONI: Voglio molto bene a Francesco De Gregori, per quello che ha scritto e per come ha creduto in certe cose che ha scritto. Penso di avere amato un pochino tutti quelli della mia generazione, anche se poi magari dico "questo si poteva fare meglio", o cose del genere... un po' da dente avvelenato.
PLAYBOY: Ami anche Venditti?
BAGLIONI: E un grosso cantante: vorrei metterlo vicino agli altri. E uno dei più grossi, ma è stato bloccato, troppo, limitato, secondo me, come cantautore.
PLAYBOY: Intorno agli anni 70 nacque il discorso del cantautore a tutti i costi: se non ci fosse stato quell'"imperativo", tu non credi che ora saresti anche tu un puro esecutore, magari ancora in attesa di fare canzoni tue?
BAGLIONI: Molto probabilmente sì: cominciai a scrivere canzoni per accodarmi a questa cultura che chiedeva di essere artigiani fino in fondo. Solo che tutto ciò ci portò a travisare quello che era il concetto di musica in generale: non a caso quella cosiddetta primavera del cantautore ha castrato tutta una serie di proposte musicali che, secondo me, in Italia si potevano avere e che ancora oggi non si recuperano. Abolito il mestiere del paroliere, abolito quello del cantante, non si sa più cosa fare: non ci sono più i Mogol, i Migliacci nuovi, con tutto il bene e il male che puoi dire di loro.
PLAYBOY: Se potessi tornare indietro c'è qualcosa che faresti, che non faresti, o che rifaresti?
BAGLIONI: Il discorso dei rimpianti e dei rimorsi... me lo sono chiesto un sacco di volte. E chiaro che ogni tanto ho dei rimpianti, però, sinceramente, di fronte a tutti quelli che dicono "se rivivessi farei le stesse cose", penso che siano tutti discorsi senza senso. Certe cose ci sono perché... sono state fatte: hanno valore solamente perché sono lì ed è poi stupendo raccontarle, con la tenerezza che ti nasce ogni giorno di più nei confronti dei drammi che hai avuto. A volte li guardi con divertimento, non con tristezza: è bello rivisitarsi, con la filosofia dell'oggi però.
PLAYBOY: Che influenza ha la memoria su uno come te? Sei uno di quelli che non cancellano mai o sei uno che costruisce sempre nuovi ricordi?
BAGLIONI: Credo che ci siano delle cose che non si cancellano: però sono quelle che si rivisitano, anche se oggi non sono più come le vivevi in quel momento... sei sicuramente cambiato. La memoria è importante! Io a volte ci gioco anche troppo, ma è un patrimonio comune, da dividere con gli altri...
PLAYBOY: Le tue biografie ufficiali parlano delle tue origini musicali accomunandoti al Folkstudio: se non ci fosse stato il Folkstudio, sarebbe nata la Scuola Romana?
BAGLIONI: Confesso e dirò che non sono mai entrato al Folkstudio in vita mia: sinceramente non so nemmeno dove sia. Non so da dove siano uscite queste cose. Il mio primo cosiddetto successo musicale lo ottenni in una piazza, durante una festa del patrono di Centocelle [una borgata romana n.d.r.]: era San Felice da Cantalice e io cantai una canzone di Paul Anka. Qualcuno disse "che bravo, che carino, come si presenta bene". Poi cominciai a studiare la chitarra ed il pianoforte, senza che minimamente si parlasse di cantautori, a parte i genovesi "storici". E sono andato avanti facendo un po' di tutto: cantando nell'avanspettacolo (quello con le ballerine con le stelline sui capezzoli)... una volta ho anche suonato ad una commemorazione funebre (era With a little help from my friends e cercavo di farla nel modo più classico possibile); ho addirittura cantato l'Ave Maria tre volte, con regolare retribuzione, in latino. Ma che Folkstudio e Folkstudio!
PLAYBOY: I tuoi testi presuppongono un lungo allenamento poetico: hai cominciato a comporre molto giovane?
BAGLIONI: Beh, non ho mai scritto le poesie sui banchi di scuola: quindi mi sono trovato, mio malgrado, a scrivere delle cose che assomigliassero a qualcosa di letterario. Forse è per questo che cerco di analizzare bene il discorso prima di metterlo giù, poi cerco di limarlo il più possibile.
PLAYBOY: I rapporti col business, che sono per definizione negativi, limitano la tua creatività, la tua autonomia?
BAGLIONI: Dipende. Secondo me, in tempi brevi sono abbastanza pericolosi mentre in tempi lunghi no. In tempi brevi danno un senso di paranoia, di ripetitività, di mondo ghettizzato ed isolato: i "canzonettari" hanno scambi e possibilità di confronto minimi rispetto a tutte le altre forme d'arte (anche se questo è un pericolo per tutti i musicisti in genere). L'ambiente non è gioioso, anzi il più delle volte è trito e ritrito, contrariamente a quanto abitualmente si crede: questo entourage che tutti pensano rosa, sfavillante, champagnesco, donnarolo, schiavazzatore e così via, a me invece sembra soprattutto triste. Penso però che, in tempi lunghi, esista il modo per non restare castrati... ci si può riuscire. Io, comunque, non amo questo ambiente: e lo dico sinceramente, anche se poi, ogni tanto, l'apparato può sembrare rassicurante...
PLAYBOY: Prima abbiamo parlato degli italiani che ti piacciono: e gli stranieri?
BAGLIONI: Billy Joel: mi piace tutto quello che fa. Riesce a fare tutto bene, è grandissimo. E poi Stevie Wonder, i Pink Floyd... i Police...
PLAYBOY: "Alla Baglioni" significa oggi un modo particolare di fare musica: tu sei arrivato a questo ma, inizialmente, cosa volevi fare?
BAGLIONI: E che ne so. Ho cominciato a suonare la chitarra con le canzoni di De Andrè: d'altro canto per un personaggio come me, che a 14, 15 anni portava la ragazza a ballare e poi quella cominciava con qualcun altro, poter avere una chitarra in mano e non fare tappezzeria, non essere quello di cui nessuno s'accorge se c'è o non c'è, era importante. Anche se poi, in definitiva, quelle canzoni si rivelavano una rottura di scatole...
PLAYBOY: Hai mai scritto testi allegri, spensierati?
BAGLIONI: Beh, qualcuno sì. Non credo però alla canzone allegra, non penso neppure che esista una canzone veramente ironica... E poi non esiste un'allegria "finale": l'allegria è volatile; dura talmente poco che non si riesce a fissarla...


Articolo segnalato da Antonio.