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dell' 11/04/76

TV Sorrisi & Canzoni
La pacchia è finita a Città del Messico

di Claudio Baglioni


El Gringo, lo straniero (io per la precisione), è diretto a Lima. Una breve sosta a Santiago del Cile ed ecco la capitale del Perù. Ecco la terra arida, case screpolate, un indio a piedi nudi, avvolto nel suo poncho, il capo coperto da un berretto a maglia con i paraorecchie; una donna con la tipica bombetta in testa e vari strati (almeno tre o quattro) di ampie gonne di lana.
Ecco Lima, con le bancarelle variopinte, i marciapiedi formicolanti di gente, gli “sciuscià” con le candele al naso. Lima “povera ma bella”.
Il taxi mi porta all'albergo su una specie di superstrada con più buche che asfalto. Tutto a un botto l'autista “inchioda”, scende e comincia a correre come un forsennato. Faccio appena in tempo a girarmi per vederlo scomparire dietro la curva… Sono inquieto, penso subito a cose “terribili”. Dopo un po' lo vedo ritornare. Sotto il braccio, il paraurti posteriore della macchina che aveva perduto. Lo sistema accanto a se e riparte, per nulla turbato, senza il minimo commento.
Una sera ascoltando un tipico gruppo musicale peruviano, mi è sembrato di viaggiare al suono della quena, un flauto di canna (lo strumento più rappresentativo della musica folkloristica del Perù) e di cavalcare un lama, sul sentiero, nelle Ande… Mi pareva che anche i musicisti, dalle facce dure, impenetrabili, scavate, intagliate, suonando e cantando, viaggiassero. E in qualche modo tornassero indietro…forse al tempo degli Incas, e del loro impero, della loro immensa civiltà: al tempo dei rapporti con esseri di un altro mondo (come affermano molti studiosi e molti ricercatori e come dimostrano i ritrovamenti di sculture, incisioni, e le costruzioni che assomigliano, inequivocabilmente, ad aeroporti); al tempo in cui non c'erano conquistadores, né quelli che arrivarono nel 1500 o molto più tardi.
Mi sarebbe tanto piaciuto andare (il tempo purtroppo non c'era) al lago Titicaca, 4000 metri sul livello del mare, popolato di aironi, cormorani, fenicotteri, gatti selvatici (dai quali prende il nome del lago); o dove nasce il Rio delle Amazzoni: un posto con paludi nelle quali si sprofonda fino al collo nel fango, tra alberi e arbusti di mille varietà; regno del surucucù, serpente velenosissimo, dell'anaconda gigante (fino a nove metri di lunghezza), di gattopardi e giaguari, di coccodrilli, anghielle elettriche, piranhas.
Ma non c'è tempo per i rimpianti: una brevissima sosta a Bogotà ad eccomi a Caracas. Altro giro, altra corsa e… altra città.
Superstrade, strade e autostrade che si infilano fin dentro casa. Ponti, cavalcavia, tunnel che si intrecciano, si accavallano, si annodano e si snodano. Grattacieli, supermarkets, luci, scritte pubblicitarie pure sui tombini. Sembra Las Vegas ma ecco le baracche arrampicate sulle colline, sorelle delle favelas di Rio, dei tuguri di Lima, delle bidonvilles di Città del Messico.
Il Venezuela (piccola Venezia: così la battezzò Amerigo Vespucci) è il terzo paese produttore di petrolio del mondo. La benzina che costa 50/60 al litro (ahimè) non costituisce certo una preoccupazione. Altro problema che i caracassini-caracassensi-caracassiti (insomma gli abitanti di Caracas) non hanno, è quello del guardaroba, poiché il clima è sempre uguale, tutto l'anno. Ma se si esce da Caracas e dalla sua frenata corsa di metropoli frettolosa, tanto americana e così poco latina, si ritrovano i problemi di tutti i giorni, le schiene curve e il sudore. Si ritrovano i contadini, i campesinos, i “llaneros” che nel giorno benedetto della festa ballano, con le maschere dei diavoli, il “zapateado” e, accompagnandosi con il quarto (una chitarra a quattro corde) improvvisano canzoni. Canzoni che parlano della vita, della sofferenza, dei pescatori di perle, dell'isola Margherita, del raccolto, della rassegnazione, del silenzio, del loro pranzo di patate, del banchetto di patate, di fiumi tra valli e colline fiorite.
Rifaccio le valige e via, su un altro aereo che invece di volare come un aereo vola come un'altalena.
Il tempo di vedere Panama, quindi l'ultima tappa: Città del Messico. E' stato qui che, per la prima volta nella mia vita, ho mangiato ajo ojo e …chile, il peperoncino messicano, accompagnando il tutto con la tortilla. Frittata di farina di granoturco. Una cosa da eccellente buongustaio. Ho rinunciato alle godurie di Acapulco, preferendo, all'oceano Pacifico, il fiume di Xochimilco, un posto incantevole, con tante barche infiorate, ognuna con un nome di donna. E come potevo non andare a Teotihuacan, la città degli dei? O a Toltechi, o a Palenque, la magnifica capitale dei Maya?
Come una civiltà tanto splendida abbia potuto prendere via in un ambiente così ostile e come, poi, sia scomparsa, undici secoli fa, è un mistero… un trionfo di Ahpunch, il dio della morte.
Città del Messico è una città con la più alta percentuale di omicidi al mondo. Una città dove ogni giorno spariscono un mucchio di persone e nessuno sa che fine facciano. Una città dove la violenza è a buon mercato. Violento è il combattimento dei galli, violenta è la tequila, violento è il rituale che si usa per berla, violente le strade poco frequentate. Violenta è la musica.
A Plaza Garibaldi, per tutta la notte, decine di orchestre di mariachis suonano, contemporaneamente, a pochissima distanza l'una dall'altra. E trombe, chitarre, mandolini, contrabassi, violini, arpe, voci, si mischiano stridenti, in mille canzoni.
A proposito di canzoni ho scoperto che la “cucaracha” è lo… scarafaggio, o bacherozzo, altrimenti detto. Fatta questa “storica” scoperta, sono partito, il mio bravo sombrero in mano, una certa tristezza addosso. All'aeroporto mi è scappato fuori solo un ciao. Un po' poco. Pablo Neruda lasciando il Messico aveva detto: “… Addio ti dico, ma non me ne vado. Me ne vado ma non posso ancora dirti addio. Perché nelle mia vita, Messico, vivi come una piccola aquila smarrita che mi circola nelle vene e solo alla fine la morte le spiegherà le ali sopra il mio cuore di soldato addormentato”.

Articolo segnalato da Annamaria Gnisci.