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Rassegna stampa - giovedì 21 settembre 2000 |
ultimo aggiornamento: 18 dicembre 2001 |
Pubblicato su
La Nazione - 21/09/2000
BAGLIONI:"LA MIA DOLCE UMBRIA"
Il cantante, stasera a Spoleto, ricorda per La Nazione i legami con la terra dei genitori.
di Claudio Baglioni
"Non so se sia la memoria che ci mette del suo(tutto, in lontananza diventa poesia), o il fascino di un nome al cui suono misterioso(Umbria, come ombra), mi sono sempre abbandonato volentieri, ma mi rendo conto che il richiamo che questa terra esercita su di me è ancora fortissimo. Sebbene sia la terra nella quale, a parte Roma, ho trascorso la maggior parte del mio tempo, ogni volta che vengo -e mi capita meno spesso di quanto vorrei- ho la sensazione di andare in un posto sconosciuto. Sembrerà strano a dirlo, ma da sempre, per me, l'Umbria è un paese esotico e venirci significa attraversare quell'onda anomala di emozioni di quando si parte alla scoperta e alla conquista di una terra lontana. Sarà perchè è una regione più criptica, meno palese, meno evidente di altre o perchè non puoi possederla con un'occhiata superficiale e devi attraversarla più di una volta, ma ti sorprende sempre. Si disvela così lentamente che, a volte, hai quasi l'impressione di non esserci mai stato.
Arrivando, la finestra della momoria si spalanca subito su un bambino di città che, per non sentire la fatica nelle lunghe scarpinate tra un podere e l'altro, si metteva un bastone tra le gambe e lo cavalcava come un cavaliere con il suo più fedele destriero. Per molto tempo, nelle interminabili peregrinazioni tra amici e parenti -prima che arrivasse una claudicante 500 giardinetta- è stato proprio quel bastone la mia ancora di salvezza, il mio compagno di viaggio alla scoperta di quel mondo di sapori allora sconosciuti e, da allora, mai dimenticati. Erano passeggiate lunghe, tra fossi e pensieri che correvano di fianco ad una ferrovia, simbolo di un progresso e di una velocità che sembravano irraggiungibili. La stessa ferrovia che mi riportava alla mia casa di città, insieme a nuove meraviglie e segreti difficili da conservare e anche a qualche "amico clandestino", visto che con noi -opportunamente occultati in borse e valigie- viaggiavano alcuni piccoli animali, cosa che ci costringeva a cantare a piena voce per tutto il viaggio, per evitare che fossero scoperti. Per me, figlio di città, l'Umria era più che mai terra di misteri. Le porte irregolari, un po' "gotiche", che racchidevano gli inimmaginabili segreti delle stalle, il caldo selvatico degli animali, che creava un contrasto irripetibile con il buio freddo e l'odore di umido e vino delle cantine; la grande trebbiatrice rossa, rumorosa e sbuffante: un mostro diabolico, che urlava alla valle la sua rabbia di schiavo meccanico che ingoiava spighe e sputava grano, ma anche la sua gioia ogni volta che raggiungeva il traguardo dei cento quintali. La sua è una delle voci che mi rimasta più impressa, tra mille che, arse dal sole e dalla fatica, costellavano di racconti i lunghi dopocena sull'aia, celebrando con nascite, morti e matrimoni le tappe essenziali del cerchio della vita. I matrimoni, quelli non finivano mai. Ricordo gli sposi, eleganti come mai, sui carri trascinati dai buoi e i pranzi interminabili, 30-40 portate, accompagnati da canti di guerra e amore, in un accompagnamento di voci e suoni irripetibili, che davano vita a una sorta di musica etnica ante litteram, che animava l'aia e i miei pensieri fino a notte fonda, quando le lampade al carburo lasciavano il posto all'ancor più flebile luce delle stelle. E, poi, un rosario interminabile di soprannomi incredibili che io scambiavo per cognomi, pensando, con una certa invidia, a come fossero più simpatici e buffi i cognomi della gente di campagna, rispetto a quelli più ordinari e molto meno creativi dei miei concittadini. Dei due nonni uno si chiamava "pizzica" e uno "fante". Solo più tardi capii che il primo lo doveva al fatto di non farsi quasi mai la barba e che il secondo era uno dei pochi ad esser tornato sulle proprie gambe dalla Grande Guerra.
E' questo il patrimonio immenso che mi porto dentro come un fiume carsico che, di tanto in tanto, irrompe in superficie, facendo gorgogliare le emozioni, oggi come allora. E ogni volta che sono tornato (ragazzo a bordo della mia due cavalli "Camilla", con una seicorde nascosta nalla custodia, al posto degli animali) o adesso, a bordo di un'auto comoda per raggiungere il luogo del concerto, la finestra della memoria si apre su quel bambino di città che cavalcava il suo bastone-destriero e apre occhi e cuore al richiamo inebriante di una terra tanto amata e ancora e sempre sconosciuta."
segnalato da Elisabetta