torna al menu
stampa
Rassegna stampa - venerdė 1 gennaio 1999 ultimo aggiornamento: 18 dicembre 2001

  <  elenco completo (595)   <  articoli pubblicati su Sė Magazine (1)
  <  altri articoli scritti da Gio' Alajmo (1)

Pubblicato su Sė Magazine - 01/01/1999

Intervista a Claudio Baglioni
La mia musica, una sfida alla banalità
Le canzoni, i segreti compositivi, il prossimo disco, Sanremo, la tv, Battisti e le influenze: il cantante romano parla con noi, in esclusiva, di tutto, ma soprattutto di musica

di Gio' Alajmo

E' stato senza dubbio il personaggio musicale degli ultimi mesi, un prezzemolo. Ha suonato nei palasport, negli stadi, sugli autobus, per strada, sui camion, in tv. Un delirio per uno come lui abituato a stare lontano dalla scena, in penombra, per anni e anni. Con lui parliamo di musica, non di folle negli stadi, di playback, di megapalchi, di orecchie a punta, di revival, televisione, Fazio, le cose che lo hanno reso protagonista delle cronache di spettacolo degli ultimi mesi. Parliamo di musica, anche se è così controcorrente... Perché quando si andrà a riflettere sulla cultura e il costume della fine di questo millennio in Italia, le canzoni di Baglioni faranno parte di quello che rimane, come Battisti, come pochi altri. Con Lucio Dalla, in ottobre, ha aperto la serie di 'Taratatà', il nuovo programma musicale dal vivo di Raiuno. Poche canzoni e un paio di duetti inediti, 'Henna', 'Domani mai' che lo stesso Dalla considerava una delle canzoni che gli sarebbe piaciuto scrivere. Poi è tornato a lavorare al nuovo album con Corrado Rustici, già chitarrista e arrangiatore per Zucchero ed Elisa, rimandando al futuro la valutazione dell'ipotesi di affiancare Fabio Fazio in un programma tv di primavera, magari dopo aver fatto una puntatina a Sanremo come superospite.
A Napoli, l'ultimo sabato di settembre, Claudio ha avuto la sua apoteosi finale, con sessantamila persone ad applaudire oltre tre ore di spettacolo con finale a fuochi d'artificio degni della festa di Piedigrotta, Cantando 'Reginella" circondato da maschere di Pulcinella, in un quanto mai originale omaggio a Napoli, Claudio Baglioni ha dato l'addio agli stadi.

Quello dello stadio San Paolo, davanti a sessantamila fan entusiasti, potrebbe essere l'ultimo megashow del cantautore romano, che ha spiegato: "Ora penso a un nuovo tipo di tour: la struttura classica del concerto ormai sta segnando il passo, e forse anche gli eccessi di questa estate miliardaria. Vorrei far scomparire il palco, in esibizioni in open space da quattro-cinquemila persone in cui artista e pubblico si incontrano. Per fare questo dovranno aiutarmi le istituzioni".

Nessuno, a parte lui, può cantare tenendo le note al limite del fiato, cambiando continuamente gli accenti delle frasi melodiche. "A volte mi comporto come un compositore che vuol far fare bella figura all'interprete, ma se il brano è troppo esteso, a cantarlo bene ci riesci due volte su cinque. Mi trovo a scrivere intervalli di note di difficoltà palese, per arrivare a melodie quasi volontariamente inerpicate, difficili, con distanze inconsuete fra una nota e l'altra e senza note ripetute. Ci sono passaggi che il pubblico reinterpreta a modo suo. E ti fa nascere dei dubbi. Io e altri siamo cantanti e autori di cose popolari, per la gente, per definizione facili, orecchiabili, comunicative. Ma io tento di uscire da un canto troppo omogeneizzato, e così dai suoni, anche reinventando brani passati e questo non si percepisce molto nella dimensione attuale, nel rituale da stadio, nel grande spazio dove c e una liturgia da karaoke, tutti cantano, tutti partecipano, anche se in scaletta piazzo momenti non semplici, come 'Tamburi lontani', 'Vecchi', 'Fammi andar via'. La musica che facciamo comincia ad avere limiti di composizione, di ripetizione; da dieci anni non c'è più una vera novità. Bisogna provare anche a rompere il tradizionale rito dal vivo. Ci stiamo dividendo fra artisti che mescolano la musica con altre forme di comunicazione, elementi teatrali, circensi, spettacolari, e altri autori che si spostano su differenti forme espressive, il cinema, il disegno, la letteratura.... Forse questo nasce per la paura di non essere più così creativi in un mondo in cui tutti comunicano, e allora andiamo a cercare altre fonti di comunicazione".

Lucio Battisti usava strutture miste e complesse, inserendo parti veloci e lente nei suoi brani, anche frasi in stili differenti nello stesso pezzo. Ma anche tu non sei da meno. Da 'Questo Piccolo Grande Amore' a 'Arrivederci o addio' la struttura mista è una costante.
"Secondo me significa spingere verso una forma radicale di canzone. Ci sono esempi precisi in Italia: Modugno, Battisti e altri. 'Questo piccolo grande amore', che non so come sia diventata una canzone 'classica', non ha la struttura della canzone, ha quattro parti e un'introduzione che si ripete due volte, due cambi di tono, varie asimmetrie, eppure è diventata una canzone popolarissima. E curioso. Ma è nata in un periodo di grande sperimentazione che non c'è più e ci manca. L'ultima innovazione è il rap, ma se andiamo a guardare nasce ben da prima: Bob Dylan, il talking blues, ci sono già i semi. Uno che muoveva molto la melodia è stato Battisti che metteva molte più sillabe nella stessa battuta. Non so quali saranno le bombe musicali nuove, ma credo che passeremo due o tre anni a dare sensazioni estreme di questo lungo viaggio musicale. Andremo a mescolare le pelli da tamburo e i sintetizzatori e continueremo ad autocelebrarci. Saremo grandi animatori".

Ti capita di fondere musica e senso delle parole. Il volo di 'Poster', per esempio, quell'"andare via" con la melodia che si apre e si allontana è un raro esempio di musica descrittiva.
"Sì, perché all'inizio non avevo nulla da dire realmente. La parte letteraria è quella che tuttora sento con fatica perché non ho mai scritto poesie, neanche sui banchi di scuola. Ho iniziato a scrivere parole sulla musica e poi è venuta la voglia di significati, e quindi dei suoni. Cercavo parole che descrivessero le note, le colorassero, le arrotondassero. 'Poster' è un caso: da un'idea di base di vecchio stornello e di canto antico nasce il tentativo di librare e liberare una voce. Ci sono delle magie nelle parole, e non capisci perché, ma poi scopri che all'origine di ogni parola d'era un suono. Ciò che diciamo nasce come suono e ridiventa misterioso, antico. Alla fine i significati suonano”.

Quali altri 'trucchi' compositivi usi, a parte le note lunghissime che infili sempre più spesso, quasi a sfidare il mondo a fare lo stesso?
"Se non ho finito di comporre una canzone, preferisco non chiuderla e aspettare che trovi assieme agli altri in sala di registrazione una sua forma. Lascio anche una parte strumentale che poi non rimane tale perché diffido dagli assoli strumentali, sempre uguali a se stessi. Invece, lasciando gli stessi accordi della strofa, o raddoppio o cambio la melodia di partenza".

Il tuo scontro fra moderno e antico è anche nell'uso degli stili. Hai usato il rock, rap, valzer, bolero. Ci sono strutture in cui ti trovi più o meno a tuo agio?
"Se dovessi scegliere, sarei portato a scegliere la musica con andamento 'lirico' dove la protagonista è la linea melodica, il 'belcanto', dove non ci sia grande ingombro. Ma mi smentisco subito facendo ben altro".

Quali sono i punti di riferimento nel tuo stile?
"Quando butto su nastro le mie cose cerco di ascoltare musiche molto distanti dalle mie. Ai tempi di 'Io sono qui' ascoltavo David Sylvian. Ora Bjork. Fra l'altro trovo che le donne oggi siano musicalmente più coraggiose degli uomini. Non so quanto ciò che ascolto poi si rifletta in quello che faccio. Ho diversi punti di riferimento per cose da non fare ma nessuno per quelle da fare. Io non ascolto molti dischi, e soprattutto non di musica simile alla mia".

Peter Gabriel ha certamente influito nello sviluppo del tuo modo di comporre più recente. Fino a che punto?
"Non come composizione. Forse come modo di pensare. Avevo già di mio la certezza e il dubbio. Ma la sua curiosità, la sua assenza di snobismo, la complessità di fronte alla quale lui come artista si pone, è il lato che mi affascina di più. Vorrei riuscire a fare quello che lui ha fatto, una sorta di missione musicale, ma forse non ho i mezzi né la cultura musicale. E lui è importante non solo per quello che ha fatto, ma anche per quello che ha fatto produrre. Ricordo quando mi diceva che il nostro lavoro non doveva più basarsi sulla canzone ma sull'idea che andavamo a procacciarci dei sogni per viverli e che il nostro lavoro era inventare qualcosa che non c'era e sarebbe stato sostituito da un altro sogno".

Gli ultimi dischi hanno una predominante ritmica. Tamburi, tamburi di guerra, tamburelli irlandesi, tammurrie. Hai anche sperimentato i poliritmi, cioè la sovrapposizione di ritmi diversi. Dove e in che modo?
"La batteria è secondo me uno strumento che si è rinnovato molto poco rispetto agli altri. Suona nello stesso modo da sempre. Si muove sul binomio cassa rullante che è noioso. La poliritmia, serve a cercare di uscire dalla noia, magari usando dei bei loop elettronici come ritmo di base e la batteria come uno strumento sinfonico che non accompagna ma è protagonista. E falso dire che la musica ritmata è diversa da quella melodica. La melodia c'è sempre. Comunque, gli arrangiamenti degli anni 60-'70 erano più interessanti, più vari di quelli di oggi, che sembrano tutti uguali, con lo stesso ritmo, la stessa velocità dall'inizio. Il problema è nato con la dance, vent'anni fa. E poi non è vero che una volta le mie canzoni fossero più facili, ascoltandole con attenzione, c'era dentro, parecchia roba strana"'.

Il tuo modo di comporre è notevolmente cambiato nel tempo. Intanto privilegi la composizione alla chitarra
o al piano? E come ti influenza?
"Scrivo alla chitarra i pezzi dinamici, al piano quelli più larghi. Il piano è meno espressivo della chitarra secondo me, ma ti da la possibilità tecnica di
Tecnologicamente - è quanto poi risulta dal tuo ultimo disco dal vivo - hai affrontato diverse forme di spettacolo musicale, dalle origini a chitarra voce e microfono, al Midi, al grande show da stadio. La tecnologia ha cambiato anche la tua scrittura?
"Mi ha dato molte opportunità: sentire e prevedere abbastanza presto i risultati finali, mentre prima dell'avvento del computer - che è in grado di scrivere gli arrangiamenti e simulare il suono degli strumenti - bisognava andare in sala con le partiture e suonare. La tecnologia regala maggiore, forse troppa, libertà. Da una parte è democratica, alla portata di tutti, dall'altra proprio per questo ha creato omogeneità, un'omologazione dei risultati".

Come sarà la musica del Duemila?
"Difficile dipingere scenari prossimi. Siamo ormai arrivati al film canzone, allo spettacolo di arte varia. Forse potremo accontentarci di numeri più piccoli dei 360.000 che mi hanno seguito in questo tour negli stadi, ma suoneremo per un pubblico che ci seguirà per più tempo, con costanza, Mi piacerebbe tornare al teatro, magari replicando tante sere quante vogliono gli spettatori".

Il senso della morte è ricorrente nei tuoi temi, una lunga lenta agonia da cui sembri sfuggire, vedi anche l'apocalittico titolo 'Arrivederci o addio'. Che futuro vedi?
"Forse è un'interpretazione drammatizzata ma penso che sia destino dei protagonisti della scena essere combattenti contro la morte, la morte in generale, non solo la propria. È difficile rinunciare all'idea che un po' eroi lo si sia. Nei ma menti in cui canti sembri un soldato, un paladino, e il torneo mortale devi affrontarlo. Tutta la letteratura, il cinema, hanno questo senso della lotta per la vita, che diventa sempre più viva nel momento in cui il tempo continua ad andare. È la sfida del tempo. Ma non lo faccio né per esorcismo né per allontanare la morte. E un'acquisizione di maturità. Si diventa adulti quando si smette di credersi immortali. A Napoli ho detto che, in fondo a me piace dire addio. Però voglio togliermi da questa facile trappola della minaccia 'non ci vedremo mai più'. Ringrazio Dio del privilegio che qualcosa resterà di noi. Non so quanto sia consolatorio, ma dà valore all'esistenza. Il senso dell'esistenza, non lo scopo, perché questo non l'ho mai capito. E da senso alla quotidianità. In tre anni ho forse fatto più che nei 25 anni precedenti".

Hai visto Claudio Bisio nella tua imitazione a 'Mai dire gol'? La papalità, l'ecumenismo, perfino il naso...
"Bellissima. Sono andato a trovare Bisio, che me l'aveva registrata apposta:
io imbalsamato, Fabio che celebra il nulla,.. In tv vale più un'uscita con le orecchie a punta che venticinque anni di carriera. Ma la tv esiste, va affrontata, tutto il mondo parla di tv e tutte le forme espressive devono farci i conti. Non è il diavolo. Dipende da come la usi”.

Il tuo futuro? Si parla del tuo ritorno in tv con Fazio che non vuoi fare affatto e che quindi finirai naturalmente per fare,..
"C'è un reale affetto fra me e Fabio, ma bisogna concepire bene questi viaggi... io arrivo da un'esperienza molto distante come i concerti negli stadi, che aveva un'enfasi che in tv stonerebbe; ero Messner più che un personaggio che canta Heidi. Bisogna recuperare una dose di leggerezza che ora non h~. Non dico che non lo farò, un'idea c'è, ma devo prima recuperare i miei tempi. E poi adesso lui farà Sanremo...".

Ci sarai?
"Non ho nulla di pronto, nessun progetto, non lo so. Vorrei davvero fermarmi a fare questo disco nuovo. Sanremo è una platea importante, ma non ha senso andare lì per proporre tre minuti di canzone. Potrebbe invece essere un'idea andare - no cosiddetti 'grandi cantautori' - a presentare un progetto confrontandoci su quello, anche in gara. Potrebbe essere l'idea per il Festival del Duemila".

Tredicimila lire raccolte in Galleria a Napoli cantando le tue canzoni travestito da hippie nei giorni che precedevano il concerto per i sessantamila allo stadio. Dura la vita...
"Dodicimilasettecento lire per essere precisi. Devo essere anche finito in foto in qualche album di turisti americani. Ricordo una signora e una ragazza che sono rimaste ai margini a guardare la scena senza intervenire. Poi la ragazza si è avvicinata, ha lasciato 500 lire, ha detto 'Ciao Claudio' e se ne è andata. E stato divertente, facevo tutte le mie canzoni con cadenze country e vicino c'erano guaglioncelli che sfottevano. Ho anche cantato in autobus, dopo aver regolarmente pagato il biglietto...".

Ci sono terreni nuovi che vorresti riuscire ad esplorare?
"Un po' mescolare musica, immagine, movimento, teatro e anche di più. Tutti vorremmo scrivere un libro, un film. L'album 'Questo piccolo grande amore era stato scritto come un musical. 'E tu', fatto con Vangelis, era una commedia musicale, la storia di un navigatore un po' Ulisse un po' Corto Maltese. Sento che la rappresentazione di immagine, suono, movimento, multimedialità, la mescolanza di tante forme di espressione, di illusione, sono la tentazione più forte per il futuro. Diciamo che questo ultimo spettacolo è stato un po' come una prova tecnica di trasmissione".

A proposito di futuro. Tuo figlio Giovanni continua a seguire le tue orme? "Ogni tanto è comparso accanto a me in questi concerti senza fare una piega nonostante la folla. Quasi mi spaventa. Suona già la chitarra molto meglio di me, ma la cosa che mi fa piacere è che adesso si è comprato un basso elettrico. E questo vuol dire che sta indirizzandosi verso un approccio maturo alla musica, perché il basso è uno strumento importantissimo ma per nulla appariscente. Ci darà filo da torcere".

segnalato da Beatrice

  <  elenco completo (595)   <  articoli pubblicati su Sė Magazine (1)
  <  altri articoli scritti da Gio' Alajmo (1)