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Rassegna stampa - sabato 23 maggio 1998 ultimo aggiornamento: 18 dicembre 2001

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Pubblicato su Specchio - 23/05/1998


E ora scrivo il mio capolavoro
Dalla crisi alla rinascita: il "Divo Claudio" si confessa a Specchio.



di Marinella Venegoni

Un tempo, scompariva nel nulla per periodi lunghissimi. Roba da montarci su un bel Chi l'ha visto?. Migliaia di fans in gramaglie assediavano di telefonate la casa discografica "dov'e Claudio Baglioni?", chiedevano ansiosi, disperati. Volevano una rassicurazione, l'illusione dell'affetto che accomuna. Ma ora, da qualche tempo, la domanda sì è fatta inutile perché dove sia il divo Claudio e che cosa faccia, finalmente ognun lo sa.


Non è più a tormentarsi in luoghi esotici e sperduti, fra fogli bianchi di carta e pentagrammi da riempire. Dal '95 a oggi sono usciti ben tre suoi dischi, si è fatto vedere dai suoi ammiratori in ben due tournée, ha partecipato con enorme successo alle lunghe rivisitazioni televisive dell'Anima mia, è stato ad appena un passo dai presentare (con l'amico Fazio) la settimana di follie del Festivalone di Sanremo; e tramontato il progetto insano, se n'è anche andato a San Francisco per iniziare la lavorazione del prossimo album. Ma questa comunque e già storia recente, che anticipa di pochi istanti quell'altro paio di cose in procinto di succedergli in questa tarda primavera.
Cosa numero uno: Baglioni sarà, il 6 giugno prossimo, il primo artista in assoluto a esibirsi allo stadio Olimpico ­ ma lo stadio tutto intero, non soltanto la curva sud ­ che mai prima d'ora era stato concesso alla musica se non per avari segmenti e che è una sfida da 80 mila posti. Numero due: esce in questi giorni un libro fotografico delle sue ultime avventure dal vivo, edito da Mondadori, titolo C'era un cavaliere bianco e nero, che è anche il primo versetto di un riff del brano Le vie dei colori. E le bellissime fotografie del volume finiscono per dirla lunga su questo giovanotto di 47 anni appena compiuti, diventato con il passare del tempo più interessante e simpatico, più libero e scanzonato. Finalmente, Baglioni è una mina vagante e non più un musicista malinconico e musone, eternamente appartato e lontano dal mondo. Basta già vedere come lui spiega le ragioni di questa scelta editoriale, in un periodo in cui musicisti e cantautori si danno massicciamente alla letteratura e sognano (ma in gran segreto) il Campiello. "Il libro raccoglie foto e immagini dall'uscita del disco Io sono qui del '95 fino a ieri. A una domanda della Mondadori, "Scriveresti un libro?", io mi son sentito venire meno, e in un istinto di difesa ho detto: "Be', allora è meglio farlo di foto e di immagini, prese in modo anche casuale. Nessun racconto potrebbe essere migliore". L'intenzione è di narrare le mie vicende in modo fanciullesco e cavalleresco, come se le tournée fossero tornei. Come se il palco fosse una giostra medievale. E il filo rosso di quest'avventura per immagini è il castello". Cioè il cinquecentesco castello di Bracciano, diventato ormai il castello della musica pop per eccellenza: dopo Baglioni per le suggestive immagini del libro, lo ha scoperto anche Ramazzotti, e ci si è sposato con la sua Michelle.
Il nuovo Claudio Baglioni si racconta volentieri, sfogliando con noi il volume che gli passa per la prima volta davanti agli occhi ancora fresco di stampa. Intanto, attinge con una golosità fanciullesca dalla coppa di gelato del Bar Zodiaco, che dall'alto domina la sua Roma in una magnifica giornata di sole. "Qualcuno, venendo qui di notte, ha raccontato di aver visto gli Ufo. Nel 1985, passavo giornate intere seduto a quel tavolo... Ho scritto qui tutto La vita è adesso", confessa. Altri tempi, caro Claudio. Allora mica gli sarebbe venuto in mente di partire a cantare sul camper giallo che si colora nel libro, lungo i cocuzzoli delle montagne umbre. Quando si sparse la voce di questa sua sortita improvvisa, nel '95, tutti pensarono: ma che fa Baglioni, è impazzito?
Claudio si diverte molto ad ascoltare i maliziosi interrogativi dei cronisti musicali. Anche in questo è cambiato, nel tempo; come se fosse più sicuro di sé, e con una bella carica di autoironia, merce rarissima nel music business. Sorride raccontandosi, sul filo di quell'ironia: "Avvisaglie di insanità erano già arrivate, debbo ammetterlo. Avevo fatto nel '90 il disco Oltre, e tutti, me compreso, si chiedevano che cosa mai fosse, che cosa io avessi (pensate se De Gregori potrebbe mai pronunciare una frase simile, ndr). Ero scappato nel solito rifugio marino a pensare a quel che mi stava accadendo. Non avevo fatto nulla di promozionale, non una telefonata, una foto, un incontro con i giornalisti. Poi, in due giorni, abbiamo allestito un bilico, una motrice con rimorchio: io e i cinque musicisti, più la fonica, ci siamo saliti su e ci siamo presentati nel quartiere di Centocelle, a San Felice da Cantalice, dove da ragazzino avevo partecipato al primo concorso di voci nuove con il mio gruppo. Ci chiamavamo I nasi di falco, allora... Non credo sia tanto difficile indovinare il perché". E ride indicando il proprio, incolpevole, naso.
E allora cos'è successo, a Centocelle, quel giorno? "Era mattino, e c'era un pubblico bellissimo. I pensionati, con il giornale sotto il braccio, mi guardavano salire sul bilico a suonare. Nessuno capiva bene cosa stesse accadendo, ma in mezz'ora si sono radunate settecento persone". Par di intuire che il Divo Claudio abbia inconsapevolmente surrogato la psicoanalisi, scegliendo di tornare anche fisicamente alle origini delle sue scelte professionali (se c'è un tasto delicato, negli artisti, è proprio quello dell'Ego; ma Baglioni si mostra assai consapevole dei propri meccanismi mentali, e ne parla apertamente, senza grandi ritrosie). Spiega: "La cosa bellissima, di quel giorno, è che tutta la vita pensi di essere l'ombelico del mondo, come dice Jovanotti. Invece c'era gente, in quella piazza, che diceva "bello!" ma non mi riconosceva, non capiva. Ed è una scoperta determinante capire che non sei determinante, che non è vero che conta il tuo nome, la tua faccia, la tua strombazzata popolarità. Girammo con il camion per le strade del quartiere, tutti lì in piedi, a suonare e cantare; vennero perfino i vigili, ma non ci fecero smettere. C'era allegria e un senso di festa, come del Santo patrono di altri tempi: i bambini che uscivano da scuola e le maestre li rincorrevano per farli tornare indietro, i malati che venivano a curiosare fuori dalla casa di cura che sta là... Ancora mi ricordo che sul camion, nel traffico, mentre cantavo, mi guardava in faccia, perplesso, a pochi centimetri, un tipo seduto sull'autobus che andava nella direzione opposta alla nostra. Chissà che cosa ha pensato, probabilmente ci avrà presi per matti".
Quella strana gita alla ricerca di se stesso duro fino alle sei di sera. Andammo al Quarticciolo, una zona ancora più suburbana. Parlavo con tutti quelli che arrivavano. "A Cla' ", mi disse una signora, "stavo a prepara' da mangia'... so' venuta, mo' mio marito me mena ma io non potevo nun veni' "". Quel giorno, Baglioni aveva incontrato anche la sua infanzia: "Suonammo 40 minuti alle case popolari. Ho abitato lì per tanti anni".
Ma perché tutto questo, Claudio?
"Ero disperato. Avevo finito quel disco, avevo la sensazione che qualcosa fosse accaduto. Ebbi pure il famoso incidente in auto, contro la casa delle sorelle Fendi: cinque sorelle contro di me, figlio unico. Poi scappai e feci un disco diverso. Pensai: non mi potete chiedere di esser sempre la stessa persona".
Ci saranno certo state anche questioni di rapporti personali, dentro il gran subbuglio che accompagnava quegli interrogativi. Si sa che in quel periodo, Claudio si stava separando da sua moglie, compagna per tanti anni. Ma di questo lui non ci parlerà mai, durante il lungo colloquio sopra Roma inondata di sole; e noi rispettiamo il suo riserbo, rincorrendo invece con lui la questione dell'identità. Che ci arriva irrisolta, nella prefazione scritta a mano di C'era un cavaliere bianco e nero, dove intervallando il testo del brano con frasi pensate per l'occasione, scrive:
"... Un sentore buffoamaro di non appartenenza / La stessa sensazione che mi dà la radio quando mi ruba la voce / O la televisione che mi cattura, inquadrandomi, e mi fa diverso...".
Ma prima di finire a sorpresa in tivù, in uno dei programmi più amati degli ultimi anni, nuove esperienze lo attendevano. Baglioni ricercava se stesso buttandosi nelle situazioni più spericolate, sperimentando nei posti più impensati. Almeno per lui. Ci fu per esempio un tour nelle discoteche ("Anticipammo un trend, ci andavamo tardi, perché tanto, presto non c'era mai nessuno"). Ci fu il progetto "Oltre il concerto", con concerti sì, però anche incontri con gruppi e solisti di tutta Italia, davanti a 400 mila spettatori. "Ero in preda a un grande sbalordimento, ma in senso negativo", confessa Claudio davanti alla coppa di gelato ormai vuota. "Vista adesso, potrebbe pure parere una rigenerazione, con il gran finale del carro di Tespi poi diventato il camion giallo con il quale sono arrivato a suonare a Castelluccio di Norcia".
Castelluccio di Norcia rappresenta per il musicista romano un'altra tappa di questa incerta autoanalisi. Ma anche un modo sadico per far conoscere ai fans, nel 1995, il disco Io sono qui. Lui stesso lo spiega: "Castelluccio", dice finalmente, "è un altro luogo mio personale". Il luogo più simbolico, diremmo noi, dell'annientamento che si fa rinascita: "Quando nel '72 mi ero rassegnato a chiudere la mia carriera di musicista, perché non succedeva niente in termini di resa discografica, stavo terminando come addio al mestiere i testi dell'album intitolato Questo piccolo grande amore. E nel frattempo, cantavo le canzoni della colonna sonora di Fratello Sole Sorella Luna di Zeffirelli. Ebbene giravano il film lì, in quello che è il nostro Tibet, in una conca enorme".
Nel '95, chiedendosi fin dove avrebbe potuto arrivare, la mente gli tornò a quel luogo più che simbolico. Lui la mette giù semplice: "Volendo fare una galoppata, ho pensato che per suonare dovevo trovare un posto impossibile, un posto dove bisognasse fare una strada difficile per poterci arrivare. E pensai a Castelluccio di Norcia. Faceva un freddo polare, lassù. Una donna che era venuta a sentirmi, quasi mi assalì dandomi del lei: "Come pensa di trascinarci fino a quest'angolo di montagna?" Veniva da Napoli. Risposi: "Lei non è obbligata". Invece tornai a incontrarla la sera: ora si era comprata una giacca a vento, sorrideva, ed era di nuovo felice".
La strada delle provocazioni, anche geografiche, era tracciata. Claudio ci trova una ragione, anche doverosa, di sopravvivenza personale, contro le frasi fatte e le cose dette e cantate mille volte: "Il 16 maggio ho compiuto 47 anni (come De Gregori, come Fossati, ndr) e il prossimo anno sono trent'anni che faccio dischi. Signora Lia è del '69, ma i primi provini li ho fatti a 16 anni e mezzo. Penso ci sia dentro di me qualcosa di inspiegabile, ma anche una logica necessità di propormi con degli sconfinamenti: come saltare di continuo dall'altra parte della rete, come trovarmi sempre in un altro luogo. Questo, per non impazzire e non essere ridicoli anche di fronte ai nostri occhi".
Già. Il tempo che passa manda segnali che è obbligatorio leggere: "La maggior parte di chi si avvicina mi chiede l'autografo dandomi del lei, oppure mi dice: "Mia madre mi faceva ascoltare le sue canzoni...". Mah, forse è anche una smania, una forma di irrequietezza, che pero è più interna che esterna". Il discorso si fa serio, per uno come Baglioni che ha sperimentato ogni genere di successo, uno che è arrivato a mettere alla prova i suoi fans lassù, nel Tibet italiano: "Ne ho parlato un giorno con Peter Gabriel, qualche anno fa, mentre entrambi stavamo registrando nei suoi studi a Bath. Occorre sperare, o convincersi, che abbiamo questa fortuna o privilegio rispetto ad altri, in quanto esploratori di altri sentieri. Il mio mestiere si distingue per la capacità di fare progetti: di artisti ce ne sono miliardi, ci sono in giro talenti incredibili. Però spesso gli artisti si fermano, c'è qualcosa che li blocca in una inutile campana. Invece, il bello è riuscire a diventare faccendieri di sogni".
E riuscirci facendosi strada ha categorie fissate nel tempo e preconcetti. Chi scrive fu tra coloro che disapprovarono la scelta di Baglioni come rappresentante musicale dell'Italia al concerto di Torino di Amnesty International nel 1988, fra Springsteen e Sting e Peter Gabriel. Ci furono contestazioni e polemiche, all'epoca. Anche insulti a muso duro, che ruppero rapporti. E Claudio se ne ricorda benissimo: "Avevo già scritto pezzi di Oltre, avevo la sensazione che noi tutti fossimo vittime di preconcetti, con le trincee, le barricate, le segmentazioni. Moriremo poi tutti di luoghi comuni: spesso, si esprimono giudizi su un nulla. Ma quel che volevo, era meritarmi il rispetto da chi non apprezzava le mie cose. Non il gradimento, ma il rispetto".
E si torna per forza agli inizi, ai perché di questa sua voglia di cantare. In fondo, il problema è sempre quello, il rispetto. Parla di sé ragazzo prendendosi affettuosamente in giro: "A 16 anni avevo gli occhiali, non ero attrattivo, non brillante. Non sapevo raccontare le barzellette, copiavo le dichiarazioni d'amore dal mio compagno di banco. L'idea di suonare e cantare significava non essere soltanto uno del coro. Secondo me, canto e suono perché volevo piacere alle ragazze e avere la stima dei ragazzi. Ma volevo anche il rispetto di quelli che mi odiavano o che non mi sopportavano".
Ci siamo tutti democratizzati adesso, Baglioni? "È un fatto epocale, la soglia del Duemila è l'epoca del perdono. C'è più tolleranza. Ma temo molto questo liquidare, in nome del perdono, qualsiasi cosa. Ho il sospetto che non soltanto ci sia meno pregiudizio, ma anche meno attenzione nei confronti di ciò che succede. Oggi è tutto sfumato. Tu accendi la tv e vedi la stessa trasmissione per 12 ore, e sempre con le stesse persone. La distanze, le differenze, dove sono? Il dato più disperante, in questo giusto perdonismo, è: abbiamo perdonato tutto, ma abbiamo anche dimenticato. Mi ricordo il giorno che il comunismo è finito. C'era una perdita di identità, ma c'era anche un vento che muoveva i sentimenti. Cadeva il muro di Berlino, e magari qualcuno a casa sua diceva: quasi quasi sposto il tramezzo e i mobili. Cominciò Mani Pulite. Però oggi si è tutto un poco immelmato. Attenzione: c'è ancora corruzione, e tutti dicono "che barba". Però c'è! Nel nostro Paese c'è moltissima evasione fiscale: come mai chi non paga le tasse non viene chiamato ladro? In questo perdonismo, passa qualsiasi cosa".
Baglioni, da parte sua, sceglie di muovere il vento inventandosi ogni volta nuovi traguardi. L'ultimo, è la sfida dell'Olimpico del 6 giugno. "Ci sono tante obiezioni nei miei confronti", spiega. "Per esempio: cos'è questa mania di trovare sempre qualcos'altro? Perché uno deve cantare in uno stadio intero, quando lo stadio non è costruito per la musica? Io non discuto che ci sia una sorta di civetteria. Ma ci sono occasioni che uno vorrebbe non perdere. In fondo, si va avanti, ognuno per colmare i propri vuoti. L'irrequietezza di cui parlavamo prima: un posto che non abbiamo ancora visto, un amore ancora non avuto. Allora uno si mette in testa di affrontare operazioni forse superiori alle proprie forze. Ho letto una volta che Messner ha scalato tutte le cime superiori agli 8000 metri. Io credo che anche un cantante abbia diritto di sfidarsi. In musica come in altri campi, si assiste alle ripetizione di certi schemi e di certi stilemi, c'è una rimasticazione dei generi in tutto il mondo, senza l'audacia di rimettersi in palio tutte le volte. Se non lo fai, vali meno. Mi è venuto in mente l'altro giorno Bowie, che si è quotato in borsa: io non potrei, non conosco i meccanismi del mercato finanziario". Da più parti si dice che il fenomeno dei cantautori sia al tramonto. L'ultimo che ha parlato in questo senso è stato Ivano Fossati. Che ne pensa Baglioni? "Un po' sì, è vero. L'errore è stato di aver dato ai cantautori tutti i territori musicali. Nei Settanta, gli interpreti furono costretti a comprar pezzi dagli autori e firmarli insieme a loro. Alcuni erano temini in classe, episodi orrendi di falso cantautorato. Venne spazzata via gente che sapeva cantare, come Nicola di Bari. Alla musica il cantautore non ha fatto bene, ma è sbagliato farlo morire: muore se non sa esser temporaneo, e ripropone sempre lo stesso feticcio. Concordo con Fossati sul fatto che siamo in un autunno musicale, che la forma/canzone è morta da parecchio e non abbiamo il coraggio di scrivere una cosa che sia diversa. Appena lo fai, arrivano quelli delle radio e ti dicono: "Questa non la trasmetto perché dura più di tre minuti". La morte è nel sistema che assegna lo strapotere alle radio; perché non fanno i discografici, loro, direttamente?".
Ma come sarà, il concerto dell'Olimpico? "Diciamo il Titanic 2, spero non con lo stesso finale. Ma quel che rende elettrizzante la storia nostra di questi giorni è anche il segno di una possibile catastrofe, l'idea di andare incontro a qualcosa di misterioso. I contenuti saranno in linea di massima tradizionali, però vorrei stupire. E qualcosa sarà stupefacente: già l'ambiente talmente grande dà un senso di meraviglia. Io poi sono un gran rompiscatole, conosco fino all'ultimo chiodo del palco".
Non ha mai pensato di girare un film o scrivere un romanzo? "Non ho l'età. Comincio tutte le volte e, dopo una pagina e mezza, capisco che è improbo: se ti abitui a sintetizzare, e sempre più difficile dipanare. Ma non bisogna farsi mancare nulla". E' rimasto deluso di com'è finita la storia della sua presentazione del festival di Sanremo? "Mi è dispiaciuto un po' perché aveva il carattere della scorribanda, però poi non vorrei essere neanche troppo guascone. Ho capito che il meccanismo mi avrebbe stritolato. Mi è spiaciuto per Fazio, che ho messo in difficoltà, ma penso che alla fine ne abbiamo guadagnato tutti in salute. Dovrebbe comunque avere più ossigeno, questo Festival: è asfittico, gli ospiti passano e vanno. McCartney, mi ricordo, ha fatto una figura da pizzettaro".
Tornerà a fare tv? "Ho incontrato da poco Freccero. Uno da apprezzare molto, in questo panorama sclerotico della tv: è piacevole parlar con lui perché si appassiona, è un creativo. Si parla di una tv con Fazio e Lerner, una specie di carboneria televisiva: sono stato affiliato, ma ancora non ho pagato la tessera. La tv però fa male, se si prende come quelli che fanno soltanto quella cosa li: per fortuna, qualcuno di noi ha anche qualcos'altro da fare".
E com'è andata, a San Francisco? "Ho cominciato ad approntare il prossimo album. Ho fatto una grossa parte di lavoro con Corrado Rustici, che ho conosciuto l'anno scorso. Ho costruito una decina di canzoni/progetto, altre tre o quattro si sviluppano in un'idea parallela. Tutto però s'è fermato quando è nato l'affaire dell'Olimpico. La voglia innanzitutto è di fare un disco di fine Millennio ­ come tutti, credo. E un po' il contenuto del primo suono sino all'ultimo, senza escludere nulla: dal tamburo alla sintetizzazione; come se un'onda fosse partita secoli fa e tutto poi ritornasse in un suono prodotto da una macchina. Penso che dovrebbe essere la chiusura di un trittico che nasce con Oltre, un disco del guardarsi indietro per chiedersi da dove si era partiti. Quando uscirà? Mi augurerei quest'anno, ma i conti si fanno dopo il 7 di giugno. L'unico insegnamento positivo della tv, oltre ad aver visto i televisivi da vicino, è stato quello della velocità: far le cose di fretta, inventare nel giro di pochi minuti un altro programma. E allora l'idea che una cosa si possa fare in pochi minuti mi affascina. Io sono lento, il fatto di chiudere, di finire, è terribile, perché in fondo noi siamo infiniti. Ed è sempre molto più bello quel che avevi in testa di quello che fai". Cosa farà la sera prima del concerto? "Dormirò come il principe di Condé prima della battaglia di Rocroix. Dormo sempre, prima dei concerti: da un anno ho pure smesso di fumare, e sto meglio".



Lo ascoltavamo di nascosto

Gaddo Della Gherardesca

Siamo italiani, quindi le canzoni d'amore ci piacciono eccome. Ho sempre ascoltato la sua musica. Me ne frego dei luoghi comuni. E poi di impegnati ce ne erano talmente tanti che il sessantotismo a tutti costi era diventato una barba. Guccini mi piaceva moltissimo, Baglioni era una cosa diversa, mi faceva stare bene. E li ascoltavo tutti e due.



Barbara Palombelli

Allora Baglioni era proprio proibito. Ingiustamente. Direi che è stato uno dei tanti "misfatti" della sinistra di quegli anni. Complimenti a Fazio che ha un po' rimediato. No, non si usava proprio. Del resto gli amori stessi non erano come quelli cantati da Baglioni, erano molto più disperati, meno romantici. Però il 6 giugno io sarò lì, all'Olimpico, ad applaudirlo...



Francesco Rutelli

Che mi ricordi, nella mia vita penso di non avere quasi mai ballato. Ma da ragazzo, quelle poche volte che l'ho fatto, è stato proprio sulle note di Piccolo Grande amore. Claudio Baglioni è un cantautore amato da tutti, dai vecchi e dai ragazzi, dalle casalinghe e dai giovani arrabbiati. È un campione, insomma, e quindi è giusto che trionfi allo stadio Olimpico



Marina Salamon

Ascoltavo Piccolo grande amore ripetutamente, con una mia amica, e intanto immaginavamo storie d'amore. E' stata la canzone che ho più amato e ancora oggi, quando la sento, mi emoziono. I miei fratelli, che non si perdevano un'occupazione, mi dicevano di vergognarmi. Io, naturalmente, me ne fregavo. Le cose che ascoltavano loro le trovavo di una noia mortale.



Luigi Manconi

C'era una tale avidità e curiosità che si ascoltava e si guardava tutto, messaggi romantico adolescenziali e contenuti militanti, Claudio Baglioni e Jimi Hendrix, Ultima neve di primavera e Matti da slegare. Trovo bizzarro chi negli anni '80 diceva: "Finalmente posso andare allo stadio senza sensi di colpa". Se non ci andava negli anni '70 era un fesso.

segnalato da Enrico

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