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Rassegna stampa - sabato 23 maggio 1998 ultimo aggiornamento: 18 dicembre 2001

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Pubblicato su Specchio - 23/05/1998

Cari italiani, vi canto io dove vi porta il cuore
Un libro celebra Claudio Baglioni
Ma il suo non è un amore da buttare

Siamo cresciuti con le sue canzoni: anche quando qualcuno [la maggioranza?] sosteneva che fossero troppo sdolcinate. E Claudio Baglioni θ cresciuto con l'Italia…

di Edmondo Berselli

foto Che rapporto c'è fra il Baglioni degli esordi, tanto bravo ragazzo, e il serioso signore che si prepara a fare il piano allo Stadio Olimpico? Per capirlo riascoltiamolo, rileggiamo i suoi testi. Ci accorgeremo che non sono solo canzonette. Poi Claudio ci racconta che…




Chi dovesse selezionare un simbolo dell'italian style farebbe bene a dare un'occhiata al Claudio Baglioni attuale. Perché in primo luogo è indubbiamente scicchissimo: longilineo, capelli lievemente brizzolati, qualche volta "porta" perfino dei magnifici occhiali da presbite sul naso (rifatto?), che gli allungano un'espressione mite intellettuale e sembrerebbe per niente studiata (le nonne direbbero con simpatia: "Tanto fiiine!"). Insomma, un quasi cinquantenne in perfetta forma, giovanissimo eppure maturo, sobrio capace di un'eleganza che sembra venirgli spontanea: mai un gesto di troppo, niente isterismi da popstar, riservatezza, dedizione alla privacy, si­gno­ri­li­tà. È passato fra le nostalgie di Anima mia, la trasmissione che ha trasportato il trash degli Anni Settanta nella sfera di una religione collettiva, esibendo il dono rarissimo dell'ironia e dell'understatement. Gli altri si profondevano in gridolini e stupori e sospiri per il telefonone o il mangiacassette esibendo la gioia scriteriata di fare i bambini e le bambinate: lui scivolava fra l'oggettistica da modernariato e le canzonacce d'epoca con un disincanto che dimostrava: primo, una eccellente professionalità; secondo, la dote preziosa e non troppo diffusa del senso della misura. Da fare innamorare le ragazzine emozionate e sospirare le trentenni inquiete e commuoversi fino alle lacrime le quarantenni palestrate e pronte al grido di guerra "urka ke figo".
Quando era più giovane in realtà non è che fosse poi così eccitante. Sembrava l'emblema dell'Italia in edizione democristiana. Dice il critico Felice Liperi: "Baglioni in realtà è stato l'interprete profondamente "politico" del mondo di emozioni giovanili della grande sottocultura cattolica Italiana". Può darsi, dato il catalogo di ninnoli amorosi, la maglietta fina, il passerotto, il legnetto del cremino da succhiare, l'elegia del sabato pomeriggio: chincaglieria crepuscolare, piccola poetica del quotidiano, e alla lunga il rischio dell'effetto stucchevolezza, implacabile, definitivo, efferato come in effetti è stata efferata la vendetta popolare contro la DC.
Abbiamo detto crepuscolare: se Guccini è il Carducci della musica popolare italiana (versi che macchinosamente cigolano ruotando su se stessi), e De Gregori ne è forse l'Ungaretti (miscela spot di ermetismo e realismo), Baglioni se ne sta o se ne stava fra Pascoli e Gozzano: con una sua esattezza linguistica, con un certo amore per le parole, con una sensibilità per la metrica. Bozzetti e presepi, ma anche un'insolita precisione nel definire situazioni, psicologie e trasalimenti.
Non malaccio: però tutto sommato sempre sintonizzato sull'intimistico­adolescenziale, avvinto al sentimento delle piccole cose e dei piccoli grandi amori, e insomma al sentimentalismo in genere. Alla fine: uffa. Anche il marito Brambilla della moglie Pivetti si stuferà di cantarle ogni sera "Accoccolati ad ascoltare il mare...".
Però era bravo, o a seconda dei gusti bravino o bravissimo, già allora. Sempre pronto a strangolarsi l'ugola per acchiappare quelle sue note così alte, per trasformare il modulo delle stornellate, le voci di Porta Portese, le sonorità strati antichi di folklore musicale in una performance, come dicono gli uffici stampa, "carica di modernità".
Poi, naturalmente, anche lui cambia. Lo strangolamento dell'ugola viene esasperato per conferire una maggiore drammaticità alle interpretazioni. Oltretutto si viene a sapere che non era nemmeno democristiano, ma inclinava, "anvedi che strano", a sinistra (anche se nel settembre 1988, convocato sul palco dell'Amnesty International Tour a Torino, dove si era esibito ai fianco delle icone rock Peter Gabriel, Bruce Springsteen e Sting, i progressisti lo avevano fischiato come se avesse usurpato il posto: e lui in questa transizione bruciante dai trionfi di popolo alla contestazione ne aveva avuto un terrificante shock psicologico, senza neanche riuscire a spiegare che non era diccì).
Comunque, sempre molto emblematico. Talmente emblematico e sensibile ai mali del decennio da diventare problematico, scomparire per lunghi periodi, farsi prendere da malumori e vertigini esistenziali (il "male di me" dell'ultimo album, Io sono qui, con i suoi "brividi avvoltoi"), e farsi stordire da sofferenze sentimentali in famiglia particolarmente tortuose.
E sempre con la voglia di raccontarle, le sue vicende ed esperienze personali. Di rielaborarle, di raccontarle e di raccontarsele. Solo che, essendo un essere pesante, non le butta fuori come viene viene inseguendo l'immediatezza. Le rimugina e le lavora, le trasfigura, le scrive.
Sarà anche per questo che le sue produzioni diventano sempre più complesse, articolate, un tormento. Dischi rinviati per mesi aspettando non si sa quale ricamo aggiuntivo di chitarra. Perfezionismi da spaccare le note in quattro. Lui non ha avuto la fortuna di avere il genio eclettico e travolgente di Lucio Battisti, ma potrebbe sposarne la filosofia e il metodo: "È il tuo rapporto con la verità / niente è definitivo per te / provi e riprovi e non ti fermi mai / e intanto aggiungi, tagli e sintetizzi" (E già, 1982).
E quindi prende le proprie intuizioni compositive, le dilata, le modula, le tira, le smonta e rimonta: accidenti, è la "fatica del concetto" di hegeliana memoria, ma qualche volta arriviamo felicemente nei dintorni di una fenomenologia del memorabile.
Diventa tendenzialmente verboso, questo sì. Come se avesse un bisogno assoluto di spiegarsi ed esprimersi, ma nello stesso tempo subisse una costante tentazione a nascondersi, a sistemare filtri, a complicare "strada facendo" quelle che una volta erano le "sue" piccole cose. Tant'è che quando all'inizio degli Anni Novanta fa uscire dopo molte macerazioni l'album doppio Oltre, non pubblica i testi, ma piazza una lunghissima sbrodolata in corpo 6 dove, identificandosi in un personaggio dal nome deprimente di "Cucaio", mitologizza la propria propensione autobiografica in una micidiale parafrasi delle liriche (il testo deve aver scoraggiato sin dalle prime righe anche i/le fans più sfegatati/e).
Con il risultato che infila versi come "quando la notte è passata al passivo... passionale passeggio e ripasso i miei passi" e via allitterando in "esse" per un'intera strofa, e poi di nuovo nella conclusione: "Che spasso era andarsene a spasso / passo / e chiudo". Ahi ahi, la freddura. E in un altro brano, preso a caso: "E in cielo accenderanno / comete come te". Insomma, all'improvviso eccolo capzioso e sperimentale, maniaco professionista dell'esercizio linguistico: che è successo? Il poeta del naturale diventa l'esteta dell'artificiale: perché mai? I più scettici dicono che dev'essere rimasto sconvolto dalle evoluzioni parolibere di Pasquale Panella, poeta postfuturista, l'ultimo coautore di Battisti. Quello che ha osato scrivere "un ingordo gorgo umido è l'addio", oppure cose sado­voyeuristiche come "la vista l'angolai / di modo che tu mai / entrassi col viavai / di quando sei / dolcezza e liturgia, orgetta e leccornia".
Sarà vero, sarà falso, boh. Sta di fatto che anche l'ultimo disco (il già citato Io sono qui è denso di passati remoti molto panelliani e strofe molto profonde come "la didascalia / dei tuoi atteggiamenti / sacra liturgia della formalità". Mica male, no? Con l'aggiunta che per dire tutto, per dire ancora di più, ci mette anche degli intermezzi, primo, secondo, terzo e quarto tempo, montati come un film. Tanto che ci sono anche le indicazioni esplicite di regia: "Esterno giorno, lento carrello in avanti, stacco, fuori campo".
Ha una voglia matta di saturare tutto di parole, parole e ancora parole. Fortuna che qualche canzone fa venire il magone tanto è bella. Insomma, Baglioni è uno di quelli che poteva restare uno dei tanti, e invece si è messo a lavorare in modo matto e disperatissimo. Poteva essere uno Zelig dell'italianità, il ragazzo della porta accanto, il povero ma bello, il ricco ma buono, il fidanzato delle ragazzine, il meraviglioso figliuolo di tutte le mamme, il nipote di qualsiasi nonna: è diventato prima il bel tenebroso, poi il tenebroso e basta, infine un tipo di buona cultura anche se afflitto da velleità semiaccademiche, che comunque parla un italiano senza troppe concessioni al romanesco, rilassato in pubblico, addirittura, direbbero le nostre zie, un ragazzo "simpatico", non solo un cantante "valido".
Chissà: dopo averlo visto sgusciare tra tutte le pieghe dell'italian style, ci si potrebbe magari accorgere con un pizzico di stupore che non si tratta solo di stile, ma che c'è di mezzo una vocazione a impersonare piuttosto bene, con insolita eleganza, il carattere nazionale. E che l'Italia degli ultimi venticinque anni potrebbe non sentirsi male nel vedersi rappresentata proprio da Claudio Baglioni, l'italiano.

segnalato da Enrico

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