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Rassegna stampa - domenica 15 settembre 1996 |
ultimo aggiornamento: 18 dicembre 2001 |
Pubblicato su
L'Unione Sarda, Spettacolo - 15/09/1996
www.unionesarda.it
INTERVISTA: Il cantautore romano martedì a Sassari e mercoledì a Cagliari
Canzoni sporche di polvere
Claudio Baglioni racconta il suo tour giallo
di MARIA PAOLA MASALA
Canzoni sporche di polvere e sudore, indurite dalla fatica, innervate dai nuovi arrangiamenti e dalla «elettricità» che solo il contatto con la gente può dare. Claudio Baglioni le porterà in Sardegna, con la sua band, martedì allo stadio comunale di Sassari e mercoledì alla Fiera di Cagliari, traghettando attraverso il Tirreno una carovana di ventuno camion color zafferano, e un seguito di cinquanta persone. Sono due delle tappe del Tour Giallo, che ha preso il via il 23 settembre dell'anno scorso nel Pian grande di Castelluccio di Norcia e che ha attraversato tutta Italia. Dopo una sosta per riprendere i fili della vita di tutti i giorni, il carrozzone dei "musicanti leggeri" è ripartito giorni fa: in programma tredici date. Tre giorni fa l'esordio, a Milano, venerdì a Codroipo, ieri alla Festa dell'Unità di Modena, stasera a Genova e martedì a Sassari, dopo una notte trascorsa in traghetto. E poi, dopo Cagliari, Napoli, Catania, Marsala, Caltanissetta, Taranto, Cava dei Tirreni, Pescara.
Io sono qui è il titolo dell' ultimo album di questo cantautore quarantacinquenne riservato e gentile che è capace di rimettersi sempre in gioco. Avrebbe potuto vivere di rendita sui suoi piccoli grandi amori, ha preferito prendere la strada meno facile della ricerca e del confronto con gli altri. Dal '70, anno del primo Lp, sono passati ventisei anni, tredici album, e una infinita serie di concerti, di tour mondiali, di registrazioni, di incontri e collaborazioni con artisti come Vangelis e Astor Piazzolla, Bruce Springsteen e Peter Gabriel. Oltre ad alcune incursioni nei luoghi della musica colta: il concerto dell'87 con la London Symphony Orchestra diretta da Lorin Maazel (canto e suonò Uomini persi), il "duetto" con Monserrat Caballé a Barcellona, nel '91.
Dalla Sardegna Baglioni manca undici anni. Il suo Tour «Notte di note» partì proprio da Cagliari, nell'85, per finire dopo 54 date a Roma, in un doppio concerto per ottantamila persone.
«Nel tour partito lo scorso settembre la Sardegna è stata tagliata fuori per motivi tecnici», spiega. «Mi sembrava un'assenza colpevole, e allora alla ripresa di questa cavalcata molto breve e un po' folle ho deciso di inserire anche due tappe sarde. Da qui l'ipotesi scellerata di fare tredici concerti in sedici giorni».
Perché Tour giallo?
«Perché il giallo è il colore della carovana, dei guitti, della fatica, e questa è una tournée dai contenuti spontanei, di improvvisazione, di recupero di canzoni mai fatte, di altre fatte con le versioni originali, prima ancora che venissero registrate nel disco».
Un grande carrozzone, una compagnia di musicanti on the road che si fermerebbe idealmente "dove capita", dovunque si trovi uno spazio libero, possibilmente vicino al mare. Diverso dal Tour rosso, che era un po' a metà strada tra il concerto e la rappresentazione teatrale. Diverso dal Tour blu che è ancora tutto da costruire.
Baglioni, vuol fare concorrenza alla trilogia di Kieslowski?
«Lui si è ispirato alla bandiera francese per dare un colore ai suoi film, io più modestamente mi ispiro ai colori primari. Il rosso, il giallo, e il blu. Mi ispiro a Le vie dei colori, la canzone del viaggio, del fantasioso, dell'andare a cercare cose che ancora mancano, che ancora non si conoscono».
Giallo la carovana, rosso il teatro, e blu?
«Blu è il cinema, la televisione, l'immagine. Ho in mente in progetto, ma è ancora tutto da verificare».
Tanti anni fa lei cantò nel "Fratello sole, sorella luna" di Zeffirelli. Ha mai pensato di comporre una colonna sonora? E per quale regista le piacerebbe lavorare?
«Io frequento alcuni registi italiani, ho fatto un video firmato da Salvatores e ho un buon rapporto con Tornatore, ma c'è un regista americano che considero un po' vicino a certe mie scelte musicali, è Terry Gilliam, l'autore di Il barone di Mulchausen, L'esercito delle dodici scimmie, La leggenda del re pescatore. È un grande favolaio, mescola spazio e tempo, è un vero creatore».
C'è un musicista che rappresenta un punto di riferimento da sempre?
«Oggi più che mai Peter Gabriel. Tra gli artisti anglossassoni è stato il primo ad accorgersi che l'egemonia della musica americana o inglese non aveva senso, veniva dettata dal mercato. È stato il primo a mischiare la sua cultura con le altre etnìe. Mi piace per il suo impegno a cercare situazioni spettacolari non consuete, è un eterno dubbioso, un disco ogni sei anni».
Anche lei non scherza, in quanto a dubbi...
«Gli ultimi due album sono stati improntati alla ricerca, alla fatica. Adesso vorrei fare un disco meno "di salita", da gennaio comincerò a realizzarlo».
Come nascono le sue canzoni?
«La partenza è sempre musicale, le parole vengono dopo. Sono sempre stato affascinato dalla musica, mi fanno dannare i testi. E invece, curiosamente, è stata la parte più analizzata, anche dagli studiosi della lingua italiana. È un' ironia del destino, no?».
A proposito di testi, pare proprio che Ron abbia copiato a man bassa da un sonetto di Shakespeare quando ha composto la canzone che poi ha trionfato a Sanremo..
«Capita spesso di trarre ispirazione da un poeta, certo poteva essere più attento, e citare la fonte. Comunque è un peccato veniale».
Meglio adesso o vent'anni fa?
«Né meglio, né peggio, diverso. Allora c'erano meno tormenti e meno interrogativi, oggi c'è più consapevolezza e più dubbio, qualche strada è meno illuminata, ma paradossalmente la vitalità è cresciuta».
Che rapporto ha con le sue canzoni storiche?
«Sono canzoni che non saprei più scrivere; suonarle -come faccio a volte anche adesso- è come guardare una vecchia foto: alcune sono ancora forti ed attuali, altre non ce la fanno a passare il tempo. Poi, poi si fa pace con tutto».
Qual è l'ambiente ideale per cantare?
«Nelle ultime due occasioni, nel '92 e nel '96 l'ambiente Palasport mi è piaciuto anche se purtroppo ha più d'un aspetto negativo, per quanto riguarda l'acustica. L'ambiente ideale è la vecchia arena, il pubblico tutto intorno, da sette a ottomila spettatori».
Che cos'è il successo?
«Una grande trappola, può portarti al delirio dell'onnipotenza. E poi significa dover sorridere anche quando si è stanchi».
Di che cosa ha paura?
«Della disattenzione, del fatto che i rapporti tra gli esseri umani vengano liquidati attraverso i luoghi comuni, ho paura dei giudizi dati senza conoscere, della superficialità».
La sinistra al potere, che ne pensa?
«Pur essendo simpatizzante anche se non credente a tutto, ho incominciato a tremare, quando ha vinto le elezioni. Tutti si attendono i miracoli. Il potere poi tende a ripetersi, spero davvero di non assistere a scene già viste...».
Lei sta girando come una trottola da Codroipo a Caltanissetta. E la Padania di Bossi? La diverte, la irrita?
«Trovo imbarazzante che qualcuno si eriga a capopopolo. Certi fatti sono ridicoli, altri però traducono istanze giuste. Il risultato è un gran casotto».
Ottimista o pessimista?
«Mi definisco pessimista ma i miei primi gesti di fronte a una difficoltà sono di ottimismo».
Ligabue dice che non pensa al pubblico quando scrive i testi. E lei?
«È la maniera più corretta, non pensarci: il fatto di scrivere pensando di piacere è un errore grossolano, si scrive per se stessi».
In tanti anni di tour e concerti lei ha conosciuto tanti giovani. Li trova diversi?
«Apparentemente sono sempre gli stessi. Forse hanno pensieri diversi sulla vita, probabilmente sono più confusi. E penso che non abbiano il senso del progetto, che per paura del futuro si siano come accomodati. Dai tredici ai vent'anni dovrebbero pensare a fare la rivoluzione. E invece è sempre più difficile scrivere pagine nuove...».
Suo figlio Giovanni ha quattordici anni, che cosa gli augura?
«Di non perdere mai la sensibilità che adesso mostra di avere e di essere sempre incuriosito dalla vita. È fondamentale, se si vuole vivere da vivi».
segnalato da Caterina