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Rassegna stampa - mercoledì 1 maggio 1996 ultimo aggiornamento: 18 dicembre 2001

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Pubblicato su Professione Genitore - 01/05/1996

Capita raramente di vederlo sulle pagine di una rivista o nei programmi televisivi. Claudio Baglioni è un personaggio schivo, riservato, fedele a se stesso. Ma dopo cinque anni passati lontano, è tornato.
Mio figlio, una rivoluzione
Noi, incontrandolo, abbiamo scoperto un uomo sereno e un padre affidabile…

di Eleonora Chioda

foto "Tutto scorre e c'è anche molto rumore. Ma se impari a fermarti e ad ascoltare, sei già un uomo diverso". E' una delle cose che ci ha colpito, quel venerdì pomeriggio in cui abbiamo incontrato Claudio Baglioni, reduce da una tournée trionfale. Prima del suo disco “Io sono qui (tra le ultime parole d'addio e quando va la musica)”, datato 28 settembre 1995, innumerevoli altri titoli. Il primo del 1968, il penultimo cinque anni fa. Era il 1990. Claudio pubblicava “Oltre” e nel 1992 partiva per la tournée italiana. Al 51esimo concerto, chiudeva il sipario e spariva. Lontano. Dal successo, dalle facili illusioni di una vita sopra le righe, dai privilegi della popolarità. Vicino a un figlio che cresce, dentro a un foglio per scrivere nuove storie, in una vita normale per riscoprirsi uomo. "Avevo bisogno di staccare l'interruttore e darmi una dimensione più reale. Vita frenetica, esaltazione, concerti, orari sballati. Dovevo smettere. Il successo è una figura strana, che non sempre mostra il vero lato dell'esistenza. E' una specie di grossa bestia, che ti coinvolge dentro. E c'è il rischio di entrare in un tunnel strano.. Perché l'esaltazione porta a un bisogno continuo di essere esaltati".
Ride e poi si fa serio. Parla solo quando ha delle cose da dire. Si ferma, se la domanda che gli porgiamo gli appare banale. E' qui, al telefono. Ha una voce profonda, piena di rabbia quando pensa alla superficialità, serena quando guarda al futuro. "La serenità è sapere che posso fare progetti, guardare al domani e vedere che incontrerò persone che hanno una storia vera da raccontarmi, una vita reale da vivere. Non virtuale, non mediata, non falsa. Questa progettualità vivo, mi dà il gusto di esserci".
Con Claudio Baglioni è facile parlare di molte cose. Anche se ha più volte dichiarato che le parole finiscono per creare una trappola, perché si comprendono, noi abbiamo la presunzione di esserci compresi. Senza trappole. Quello che ne esce è il ritratto di un artista che ha calcato le scene per oltre 30 anni, fedele a se stesso, un po' uomo e, per dirla con le parole di una sua canzone, anche un po' farabutto, padre di Giovanni, quattordici anni. "Sto studiando da papà. Ma non credo di essere diverso da altri papà. Certe volte mi chiedo quanto influiranno su di lui le mie assenze, le mie distanze, quel prendere e partire ogni volta. Ma poi mi rassereno, pensando a mio padre che faceva un altro lavoro e che spesso non vedevo per giorni interi. Che cosa vorrei dargli? Vorrei suscitargli allegria, umorismo, fantasia. Non essere il suo migliore amico". Ride e aggiunge con ironia che se lo deve tenere comunque così com'è questo figlio perché tanto ormai è scaduta la garanzia. "Fra qualche anno comincerà a cambiare. Sarà diversa la sua voce e il suo modo di essere. E io mi renderò conto che il tempo è passato. Non mi chiedo che lavoro vorrei che facesse. Anche se sbaglierà, anche se sarò contrario. Lui dovrà pensare ed essere quello che vuole".
Una sola cosa aggiunge. Un augurio che è già anche consapevolezza. "Vorrei che fosse una persona (e in parte lo è) che abbia occhi per il fuori sì..., ma anche per il dentro. Che sia in grado di guardare alle cose con profondità. Che abbia i suoi sentimenti e che li sappia difendere da chi vorrà calpestarglieli".

"Il mondo andrà meglio di come va"

In “Titoli di coda” dici: “Figli miei vi lascerei se potessi una casa più grande… e risposte per cento domande, che cresciate un po' meno da soli, ma soli si è in ogni copione… “. E' la tua eredità?
"Sì. Una casa più grande. Ossia un mondo più caldo. E mille risposte per mille domande. Questa è una specie di autoassoluzione, una richiesta di grazia. Un desiderio di lasciare qualcosa, una risposta, un'opinione che si vuole trasmettere quando si tenta di contare di più per gli altri. Ma poi i figli cresceranno da soli, perché in fondo si è e si vive da soli. E allora quelle risposte resteranno. E' un modo per dire: “questo è quello che ti ho dato. Se poi un giorno ci rincontreremo, perdonami per quello che non sono riuscito a fare”".
C'è una domanda di tuo figlio che ti ha colpito in modo particolare?
"Ricordo una risposta più che una domanda. Giovanni aveva 3 anni. Mi guardò fisso negli occhi e mi disse che era trattato male e per questo voleva le chiavi di casa. Per andarsene. Gli chiesi che cosa voleva dire e lui rincarò: “Tu non hai coscienza”. Che concezione può avere della coscienza un bambino di tre anni? Glielo chiesi e la sua risposta fu straordinaria. “La coscienza è quella cosa che abbiamo vicino, che sta sempre zitta e che ascolta".
Hai paura del suo domani?
"No, oggi non ne ho. Sono una persona con grandi terremoti interiori. Da sempre. Ho vissuto un certo disagio dell'esistenza, ma ho anche toccato vette altissime di felicità. I miei guai li risolvo quando sono assente. Ma, se torno e quando torno, sono un ottimista. E guardo al futuro pensandolo stimolante. Non catastrofico. Le cose andranno meglio di come vanno. E mio figlio, tuo figlio, suo figlio avranno un loro scenario nel quale muoversi, uno scenario che sapranno dipingere con colori nuovi, magari migliori".
Lo crescita di tuo figlio ha condizionato la tua?
"Sì, ma è stata la sua nascita a correggere molto di più la mia esistenza. E' stato come rivoluzionare la mia vita. In quegli anni ho vissuto quasi una crisi di identità: avevo bisogno di ritrovarmi bambino, mentre mi rendevo conto che terminava un'epoca in cui non dovevo e non potevo essere un ragazzino. Poi, piano piano, mi sono accorto che Giovanni non era un pezzo che si staccava da me. Ma una persona che camminava al mio fianco, con una sua sembianza, la sua testa, le sue idee. E accorgermi di questo fu un fatto incredibile: nella mia vita era entrato un elemento in più, vitale, centrale. Con il quale rapportarsi".
Esce con forza il ritratto di un Baglioni padre. Sereno fino in fondo, come lo può essere solo chi conosce la profondità dei veri sentimenti, e il dolore per quelli falsi. "Mi fa rabbia vedere in faccia la superficialità, la scorrettezza., la tendenza a liquidare le cose e a definirle. Mi avvilisce l'ignoranza di chi esprime pareri senza sapere, senza avere cognizione dì causa. Detesto il bisogno di essere sempre al centro dell'attenzione, un male che ci appartiene e che è proprio di questi anni".
Ma che forse non ti tocca. Come sei stato lontano dai riflettori?
"All'inizio si vive una forma di stupore. La mente e il corpo sono abituati a ritmi molto eccitati. E quando si torna alla normalità, ciò che resta è lo smarrimento. L'ultimo giorno di fine tournée mi ricorda i soldati che tornano a casa, quando la guerra è finita. Non hanno più nessuna funzione, non sanno a cosa servono. Ecco, io sono stato così. Poi ho ricominciato a scrivere, a pensare, a raccogliere idee. A preparare un nuovo disco. Pensavo ci volessero sei mesi, invece ho impiegato cinque anni".

"Credo alla dignità più che all'onestà"

In conclusione nel tuo disco dichiari di non sapere quanto hai fatto il farabutto. Ti senti più uomo o più farabutto?
"Non lo so. Forse un po' tutte e due le cose. Credo di essere un po' farabutto. Perché vivo della mia espressione, racconto le mie storie. mi autopsicanalizzo dentro le mie canzoni, che poi verranno ascoltate dagli altri. Per cui mi sembra di approfittare di loro. Ma mi piacerebbe sapere che sono un farabutto che non fa del male".
Ti autopsicanalizzi dentro canzoni che poi verranno ascoltate da bambini, adolescenti, giovani, adulti, anziani. Come fai a tenere conto di tutte diverse identità?
"Credimi, non preparo niente a tavolino. Non so perché questo accada. Guardando la gente che viene ai miei concerti, noto una trasversalità che mi colpisce. Ma io non cerco di mediare, anche perché sarebbe impossibile tenere conto di tutte le differenze di età, di ideologia, di pensiero. Uso il mio linguaggio, anche a costo di non essere capito da qualcuno. Se ti muovi pensando a chi ti ascolterà, a come la prenderà, se strizzi l'occhio a una determinata categoria, cercando il suo consenso... finisci per uscirne "scornato", senza ottenere alcun risultato. Forse è meglio cercare di non capire il perché di tutto questo, senza toccare la propria identità".
In che valori credi oggi?
"Credo alla dignità ancora più che all'onesta".
Cos'è la dignità?
"E' la dignità di vivere. Che tutti siano degni di essere persone. Credo sia impossibile fare una classifica dei valori in cui si crede. E, alla fine, l'unico valore che li racchiude tutti è quello dell'esistenza".
Secondo te che cosa distrugge un amore?
"Il troppo amore, forse".
In "Fammi andare via" racconti di un amore finito. “Ci amammo alla follia, poi siamo rinsaviti...”. Perché?
"Quando la passione diventa troppo forte, è impossibile gestirla. L'amore si distrugge per la troppa intensità, per l'eccessiva ubriacatura. E per il tempo e l'usura che inevitabilmente porta sulle cose. Ma, del resto, sono anche convinto che nessun amore si distrugga. Si stacca, si modifica, si interrompe. Ma rimane. Come vibrazione, nei ricordi, nei segni che ha lasciato".
Che cosa allora distrugge una famiglia?
"Una società che si organizza attraverso altri tipi di unione. Troppe sirene, troppi suoni ammaliatori, troppe distrazioni. Guarda cent'anni fa: la famiglia c'era, era centrale. Perché? Fuori, non esisteva nulla che contava di più. Non c'era potere, denaro, altre donne o altri uomini. La cultura che abbiamo voluto ha messo in crisi la centralità della famiglia".
In una tua canzone c'è una frase che dice così: “che cosa sarebbe mai lo storia se a vincere fossero i perdenti?”
"Vuoi una risposta? E' un interrogativo terribile. Perché se così fosse la storia non sarebbe tale, non sarebbe quella che ci viene raccontata. Sarebbe forse la vita, perché poi nella vita non vince mai nessuno. Anche se qualcuno si illude di farlo. Dire questo non vuoi dire dichiarare che la vita è per i perdenti. La vita dovrebbe essere fatta da persone che non si chiedano se possono vincere o perdere. Ma che ammettano che è molto più importante combattere...".
Come insegnerai a tuo figlio a combattere?
"Parlandogliene: cantando, scrivendo, dipingendo. Con lui e per lui. E poi, quando un giorno avrò perso smalto, speriamo che a lui rimanga la nostalgia dei miei racconti...".

segnalato da Antonio

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