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Rassegna stampa - venerd́ 23 marzo 1984 ultimo aggiornamento: 18 dicembre 2001

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Pubblicato su Il Messaggero - 23/03/1984
www.ilmessaggero.it/


Ora anche far spettacolo "stanca"


di Claudio Baglioni

La prima emozionantissima volta che cantai ricevendo una paga fu nel non mi ricordo più quando, al cinema-teatro Espero (che quel-la sera si chiamava ES ERO perché il neon della P l'avevano rotto a sassate), in uno spettacolo di grandi attrazioni, canzoni e numeri di varietà. Raccomandato, a un capocomico grasso con la giacca scarlatta, dal padre di un'altra cantante, mi "esibii", dopo un ma-go coi piccioni e i foulard, una coppia acrobatica che rotellava i pattini su una tavola tonda, due scenette umoristiche con le attrici dalle voci sguaiate e gli spacchi alla gonna, un balletto in costume da bagno e una soubrette chiattona con i seni di fuori e due stelline di carta argentata che rifinivano il tutto (cercai in seguito, dietro le quinte, di non far cadere lo sguardo proprio lì per non metterla, pensai, in imbarazzo!). E davanti ad un pubblico di militi e mariti in libera uscita, accompagnato da un piano, un trombone e un violino che in tre non facevano duecento anni, mi guadagnai, fiero e pieno di me, una per una, le mie prime 1500 lire (l'altra cantante ne prese 6000 ma faceva già da un anno il mestiere).
Quanto tempo è passato dice una canzone popolare romana. E da allora quanti spettacoli ho fatto. Cantando per case del popolo, cabaret, locali da ballo, veglioni di alberghi, baleroni con la palla lucente che gira, teatri, palasport, parchi e stadi di calcio. E nel tempo è cambiato anche il nome di definirli. Serate, all'inizio (qualche impresario li chiamava, addirittura, servizi!?!), presta-zioni, date, recital, giri, tournées e, infine, più nobile, concerti. Ciò che non è cambiato e che non cambierà mai è che ogni volta è un problema metterli su. Ai tempi delle serate e il cantante faceva, come da contratto, 45 minuti, il palco era spesso più piccolo di quello che s'era detto e, molte volte, non c'era. Come, e non tanto di rado succedeva che non c'era il locale.
Ma, in quei giorni, si girava con poco e qualcuno, cantava pure due o tre volte nella stessa giornata, in posti diversi. Finiva salutando quel pubblico e, senza togliere la chitarra dal collo si infilava nella macchina in moto (come nelle rapine alle banche) e poi, via, in viaggio, veloce, e mentine da succhiare, scalava un altro palchetto ringraziando un pubblico nuovo, finita la sigla. Oggi ci sono i megaconcerti e organizzarli è assai arduo. Le spese son troppe e i biglietti modesti. E non c'è neanche un soldo di sovvenzione (lo Stato italiano paga più di 350 miliardi ogni anno ai teatri dell'opera). Da noi, invece, ci si porta per andare a cantare lo sgabello da casa. E poi mancano spazi. E quelli che danno son sempre meno capienti. Così, nello stesso palasport ad esempio, per il basket ci possono entrare 10.000 persone e per sentire la musica nemmeno 2.000. E poi se ci sono feriti e incidenti si blocca e si proibisce tutto, senza far distinzioni. Ma per le risse e gli accoltellati del calcio il campionato si è fermato mai?
Diceva Pavese che lavorare stanca. Anche "spettacolare" stanca. Però è pure soddisfazione. E' piacere. Da bambino (me l'hanno detto negli ultimi tempi e un po' me ne vergogno: ma i cantanti vanno dissuasi da piccoli, ché da grandi sai i danni che fanno!) nelle feste di matrimonio dei parenti dell'Umbria, quando erano allegri, c'era pure mio zio, tiravo mio padre per i calzoni, chiedendo piano: "Papà, annunciami che devo cantare..."

segnalato da Cristiana

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