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Rassegna stampa - domenica 12 dicembre 1982 ultimo aggiornamento: 18 dicembre 2001

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Pubblicato su Famiglia TV - 12/12/1982


Claudio Baglioni
Il racconto della mia vita



di Claudio Baglioni

foto La canzone: il mio piccolo grande amore – 1^ puntata

Un profano qualsiasi penserebbe che per un autore di testi, per uno come me abituato a scrivere, sia molto facile raccontare la sua storia. "Fa il suo mestiere". direbbero. "Quindi, che difficoltà dovrebbe incontrare?". E invece, qualche volta, succede il contrario.
E questo è proprio il mio caso. C'è un motivo particolare per spiegare questo imbarazzo che ho provato quando Famiglia TV mi ha proposto di "raccontarmi". Da sempre sono abituato a cantare la mia vita, le mie esperienze, perché ho scelto la musica come mezzo di comunicazione. Sin dai primissimi anni della mia vita, ho manifestato questa tendenza che mi spingeva ad avvicinarmi all'ambiente musicale. E pensare che non sono figlio o nipote d'arte! Nella mia famiglia non c'è stato nessuno che si interessasse delle sette note, eppure sono nato e cresciuto con dentro di me la sfrenata voglia di esprimermi attraverso la musica.

Padre carabiniere madre casalinga.
Sono nato a Roma nel 1951 da una famiglia normalissima in cui, per esigenze di portafoglio, sono rimasto figlio unico. Mio padre ha fatto il carabiniere dopo che, fino a 19 anni, aveva lavorato la terra. E' stato sottufficiale, è arrivato fino al massimo grado e ora è un tranquillo pensionato. Mia madre è stata sempre in casa ed è una persona a cui sono legato da un affetto incrollabile.
Sono stati due genitori positivi, perché mi hanno tirato su senza tanti grilli per la testa e soprattutto senza viziarmi, com'è tipico per i figli unici. Hanno seguito il loro istinto nell'educarmi senza leggere mai quei libri tipo “Come si cresce un bambino” in cui personalmente non credo molto.
I ricordi più belli che ho del periodo dell'infanzia sono due episodi che vi faranno capire subito perché ho scelto di fare il musicista (che parola grossa!).
Il primo risale al 1956 (avevo cinque anni) e mi rivedo ancora con alcuni miei compagni di giochi tutto intento ad organizzare una minibanda musicale. Non avevamo strumenti, ma la nostra fantasia ci venne in aiuto: suonammo con pentole, bicchieri, coperchi, legnetti vari e una piccola armonica a bocca. Andavamo tranquilli, ognuno con il suo strumento, ad inventare sonorità strane.
L'altro episodio è di qualche anno dopo e si riferisce a una sera in cui andai a cena fuori con mio padre e mia madre. Mentre i miei genitori stavano chiacchierando, inosservato mi alzai sulla sedia e cominciai a cantare a squarciagola “La casetta in Canadà” suscitando lo stupore e il divertimento di tutti i clienti della trattoria.
Credo che anche per voi sia chiaro, a questo punto, il fatto del perché ho scelto il mestiere del musicista: ho sempre avuto la voglia di esprimermi in questa maniera e perciò sono contento di poterlo fare come professione.
Ad eccezione di qualche brano popolare umbro, che ho sentito cantare qualche volta a casa mia, la mia formazione musicale si è andata sviluppando col tempo ascoltando di tutto e cercando di apprendere il più possibile da qualsiasi autore.

Prima chitarra a 14 anni.
Il mio primo vero contatto con uno strumento l'ebbi all'età di quattordici anni. Mio zio, in occasione del compleanno, mi regalo una chitarra. Iniziai subito a provare a suonare, anche se all'inizio non è che uscissero suoni godibili all'orecchio. Lo strumento, però, mi piaceva. E ricordo che provavo una grande soddisfazione quando riuscivo a tirar fuori dei suoni che vagamente assomigliavano a qualche canzone di successo di quel periodo. Dopo tanti tentativi da autodidatta, presi per qualche tempo anche un po' di lezioni non prendendo però la cosa sul serio e con eccessivo impegno.
Intanto, oltre alla chitarra e alla musica, c'era anche lo studio che con il passare degli anni si faceva sempre più impegnativo. Terminate le medie, mi iscrissi a geometra. Perché questa scelta? Semplice la risposta: il mio migliore amico aveva il padre geometra e lui era intenzionato a seguire le sue orme. Io mi feci convincere da lui.

Mi chiamavano "Agonia".
Gli anni delle superiori li ricordo con molta nostalgia perché furono gli anni della spensieratezza, delle scoperte, degli esperimenti. A scuola ero uno studente normalissimo, uno dei tanti, insomma. Né il più bravo, né il peggiore. Riuscivo ad essere promosso puntualmente anche se non ero il classico studioso-sgobbone.
Con l'andare avanti degli anni delle superiori mi resi conto che avevo scelto quella strada senza saperne il perché. La stessa parola "geometra" mi suonava strana, mi pareva limitativa, autoriduttiva. Oggi mi rendo perfettamente conto che quelli erano discorsi un po' sciocchi, ma a sedici anni credo che sia ammissibile per tutti sbagliare.
Fuori dall'ambiente scolastico, mi trovavo calato nella periferia di Roma, in quartieri come Prenestino e Centocelle in cui, purtroppo, sei emarginato di nome e di fatto.
La mia vita continuava tra la scuola e gli amici di quartiere. Ci vedevamo al solito bar per discutere di sport e di automobili anche se a me questi argomenti, a dir la verità, non interessavano molto. Nel gruppo ero l'unico musone, diciamo così, vestito di nero, con gli occhiali scuri. Per questo mio aspetto non troppo brillante, mi soprannominarono "Agonia" e per molti anni dovetti portare appresso questo nomignolo!

L'amico col vestito viola.
Tra i miei amici di quel periodo c'era chi faceva il meccanico, chi l'idraulico, chi l'operaio. Erano persone semplici che pur considerandomi uno di loro, mi guardavano già in un altro modo per il solo fatto che sapessi suonare uno strumento.
C'era un tipo particolarissimo che non potrò mai dimenticare. Era una pasta di ragazzo che si era fatto cucire un vestito viola per andare la domenica a ballare a Monte Mario, da "quelli ricchi". Il viola in quel periodo andava molto e lui non voleva fare brutta figura andando a ballare nei quartieri alti.
Erano questi i miei amici di allora e devo dire che mi facevano sentire importante perché quando cominciai a muovermi negli ambienti delle Case discografiche iniziarono a coccolarmi riempiendomi di domande: "Hai conosciuto Battisti?", "Com'è Mina?", "Nicola di Bari che tipo è?". E via su questo tono.
Questo ambiente periferico, comunque, era poco politicizzato, anche se eravamo ormai intorno al 1968, l'anno famoso della contestazione giovanile. In periferia, questo periodo non si sentì con la stessa intensità con cui si avverti nelle università e nei licei di tutta Italia. Si era emarginati anche in questo senso e la vita di tutti i giorni proseguiva senza sussulti: a scuola la mattina, qualche ora di studio, poi al bar con gli amici fino alle otto e mezzo di sera e infine a casa a vedere la televisione.

Stavo da una parte.
Non fu un periodo molto felice. Lo stesso fatto che mi avessero soprannominato "Agonia" dovrebbe già avervelo fatto capire. Anche quando ci riunivamo a casa di qualcuno per delle piccole feste, ero l'unico che non partecipava attivamente ai giochi e ai divertimenti. Mi mettevo da una parte, con la mia chitarra e le mie canzoni e spesso mi ritrovavo solo senza nessuno che le ascoltasse.
Ma la musica è stata la mia ancora di salvezza perché mi ha permesso di esprimermi senza trovare eccessive difficoltà. Così cominciai cantando le canzoni di De Andrè che usciva in quel periodo e sembrava aver centrato i gusti del pubblico. Scelsi De Andrè anche per una certa forma di snobismo dato che i suoi testi erano rivoluzionari per l'epoca.
Probabilmente il mio intento, a quei tempi, era di dimostrare a tutti la mia intelligenza e qualche modo per mettermi in mostra lo dovevo trovare.

"Studio dieci".
Cercavo, quindi, in tutte le maniere di attirare l'attenzione su di me. Per questo accettai subito di fare insieme ad altri amici un gruppo teatrale che chiamammo il "Gruppo dieci" con cui ci proponevamo di fare del teatro diverso.
La nostra ricetta teatrale era dettata dall'improvvisazione. Facevamo degli spettacoli, ovviamente abbastanza confusi, prendendo spunti dai fatti di cronaca. Uno di questi nacque dalla lettera che un baraccato romano dell'acquedotto Felice aveva inviato al sindaco di Roma denunciando l'impossibilità di vivere in certe condizioni. Su questo fatto, dunque, costruimmo una storia cantata, un gran pasticcio che metteva insieme, infilate una dietro l'altra, delle cose abbastanza eterogenee. C'era la canzone impegnata, la poesia di Pavese, un pezzo di Brecht. Il risultato, ovviamente, non fu molto soddisfacente: uno spettacolo raffazzonato, fatto artigianalmente e che annoiava mortalmente le poche persone che ci venivano a vedere.
Questo genere di cose un po' snobistiche le abbandonai quando feci nuove amicizie e venni a contatto con un nuovo tipo di musica, quella americana e in misura minore quella francese (Brel e Brassens).

Architetto mancato.
In questi anni di scoperte, mi ero preso, intanto, il mio bravo diploma da geometra e mi ero iscritto abbastanza fiducioso ad architettura. Una facoltà che m'incuriosiva e che prendevo con la consapevolezza che, comunque, era la musica il mio futuro.
Da qualche anno avevo cominciato a scrivere canzoni mie oltre a rifare quelle degli altri. Il primo pezzo lo composi, infatti, a 17 anni. Il titolo era: “Dio, tu stai nascendo, io sto morendo” ed era ispirato alle festività natalizie. Fu proprio tra le superiori e l'università che maturò la vocazione di scrivere musica e testi delle canzoni che cantavo.
E per questo, pur essendomi iscritto all'università, cominciai a muovermi per trovare qualche Casa discografica disposta a farmi incidere qualcosa.

L'incontro con la "Rca".
Una mattina, tutto impaurito, mi presentai alla Rca, una delle Case discografiche più famose del mondo. Mi trovai improvvisamente a contatto con un mondo sconosciuto. Era un posto dove tutto era grande: al bar gironzolavano cantanti di successo, giravano produttori che parlavano di cifre che io neanche mi sognavo, di dischi da "hit parade" e, infine, c'erano i dirigenti, quelli che contano, che erano chiusi nelle loro stanze e arrivare a un incontro con loro sembrava la cosa più difficile del mondo.
Nonostante questo, non mi impaurii perché avevo voglia di sfidare il destino e volevo vedere se quello che andava bene per pochi amici poteva interessare anche un ambiente così professionale.
Avevo poco più di diciotto anni, ma una gran voglia di farmi ascoltare. Pertanto gironzolai per due anni nelle Case discografiche: prima alla Rca, poi alla Ricordi, poi di nuovo alla Rca dove (avevo vent'anni) per la prima volta mi dissero "bravo". In quei due anni di vagabondaggio, avevo conosciuto abbastanza profondamente il sottobosco musicale, venendo a conoscenza di manovre davvero poco piacevoli.
In quel periodo, c'erano parecchie scuole di canto dove per 3-5 mila lire l'ora, tutto ti insegnavano meno che la musica. Il professore era un pianista che pensava più ai gesti da fare cantando che alla musica vera e propria. C'era la fila per fare queste lezioni come c'era la fila per entrare in contatto con certe organizzazioni che avevano un solo dato in comune: la parola internazionale. Queste organizzazioni con sigle stranissime ti permettevano di andare a cantare negli spettacoli di piazza, nelle feste patronali, ma senza darti una lira, giustificandosi con il dire che erano "giri promozionali".

Il bar della “Rca”.
Tenni duro e continuai a credere nelle mie possibilità, nonostante che molti episodi mi avessero davvero nauseato. Continuai così a bazzicare la Rca. Il posto in cui capitavo più spesso era il bar. Mi sedevo il in attesa di un incontro con qualcuno, per ore ed ore. Per molti mesi non fui notato perché forse davo l'aria di uno triste, vestito di nero e con gli occhiali scuri. Finché un giorno... mi dissero di fare un provino. Ricordo che davanti al microfono non riuscivo a dire neanche il mio nome, tanta era l'emozione.
Piacqui. Anche se mi dissero che c'era qualcosa nel mio aspetto che non andava. Avrei dovuto, ad esempio, levarmi gli occhiali per rendere più simpatico il mio viso. Oramai mi ero fatto notare e così nel 1970 incisi il mio primo "45", “Signora Lia”, che presentò per la prima volta al grande pubblico il nome di Claudio Baglioni.

Cantastorie d'oggi.
Il disco evidentemente "si mosse" (così si dice in gergo fra i discografici) e sull'onda di quel piccolo successo incisi subito dopo il primo LP: “Un cantautore dei giorni nostri”. Fu un disco strano nel senso che dentro c'erano pezzi divertenti e nulla più come “Mia cara Esmeralda” e “Quando tu mi baci”. Altri, invece, con alcune "rivendicazioni" classiche come “Il sole e la luna” e “Interludio”. Era la prima esperienza. Credo che siano da giustificare perciò alcuni errori!
Il disco mi fece conoscere e accettai di partecipare alla Mostra Internazionale della canzone di Venezia. Era una manifestazione importante e speravo di farmi conoscere al grande pubblico.
Tutto sembrò andar bene fin quando ci fu il collegamento con le giurie designate a votare: mi accorsi che il computo dei voti mi vedeva irrimediabilmente ultimo. Che brutta botta! Non mi vergogno a dirlo: la notte in albergo piansi a dirotto per quell'ultimo posto. Fu un colpo tremendo per le mie ambizioni, per il mio futuro.

Il primo silenzio.
La delusione era tanta che decisi di smetterla con la musica. Rimasi due anni fermo nonostante che dentro di me fosse molta la voglia di dire "Adesso vi faccio vedere io!".
In questo primo periodo di silenzio (primo perché dopo, come vedremo, ne verranno degli altri) continuai a studiare chitarra e pianoforte: i due strumenti che suono.
Con il passare dei mesi, piano piano, sbollì la rabbia accumulata e decisi di ritornare a comporre musica e, possibilmente, a fare un disco. Così mi venne in mente di costruire un LP raccontando una storia.
Un disco, dunque, collegato da un sottile filo dall'inizio alla fine. Cominciai a lavorare a questo progetto che poi sarebbe sfociato con il mio secondo 33 giri “Questo piccolo grande amore”.
Buttai giù le basi del disco insieme con Tony Mimms, arrangiatore, Tonino Coggio e il fonico Franco Finetti. Lavorammo di comune accordo e per mesi ci scambiammo le nostre impressioni su tutte le note. Fu un disco che costò parecchio alla "Rca" perché continuammo a fare prove finché non fummo contenti del risultato.
E il pubblico, infatti, ci dette ragione. “Questo piccolo grande amore” fece centro nei gusti della gente e il nome di Claudio Baglioni diventò ben presto più popolare. Avevo avuto ragione, dunque, ad insistere nel voler fare il musicista. E sin dalla prossima puntata della mia vita ve ne renderete conto.


segnalato da Antonio

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