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Rassegna stampa - domenica 26 aprile 1981 ultimo aggiornamento: 18 dicembre 2001

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Pubblicato su Music - 26/04/1981

Intervista esclusiva- Claudio Baglioni

…E ancora adesso io volo…
Dopo tre anni di silenzio sta per uscire “strada facendo”, il nuovo album del cantautore romano registrato in inghilterra. Lo abbiamo a roma e ci siamo fatti raccontare le motivazioni di questa lunga assenza dalle scene.

di Piergiuseppe Caporale

foto Una delle espressioni artistiche di cui si parlerà ancora per un bel pezzo, almeno a giudicare da quella immediatamente precedente nel tempo, è la cosiddetta Scuola Romana. Dei cantautori, naturalmente. A differenza da quella precedente, quella genovese, è stata caratterizzata da una precisa politicizzazione, dalle influenze americane (i genovesi guardavano alla Francia), dalla serietà a tutti i costi (anche l'amore veniva trattato in maniera particolare). Una scuola che poeticamente si rifaceva ai canoni anglosassoni, dunque, e che musicalmente vedeva negli scarni accordi dylaniani, o nella ricca fantasmagoria di Elton John e consimili i propri esempi.
In mezzo a questo fascio di poeti dell'intimo e dell'universale, che spesso ricorrevano all'ermetismo simbologico, che non osavano affrontare argomenti che non fossero di un certo impegno e con un certo taglio, c'era anche un segaligno capellone che sembrava, andare controcorrente: le sue storie erano semplici, riguardavano il quotidiano del giovane della strada, con i suoi problemi spiccioli (chiamiamoli così) come il servizio militare, la cottarella estiva, l'avventura con la "signora", ma soprattutto l'amore giovanile, nelle sue forme più semplici, con tutte le espressioni poetiche più agli antipodi da quelle dei suoi colleghi. Era, naturalmente, Claudio Baglioni, romano purosangue anche lui, assurto agli onori della notorietà grazie ad uno dei primi esperimenti di album concept (si chiamavano e si chiamavano così quel dischi che anziché essere una raccolta di canzoni slegate riguardano una sola storia, un solo argomento), intitolato "Questo piccolo grande amore". Da allora sono passati svariati anni e Claudio Baglioni ha percorso parecchia strada: la sua voce un po' roca ma dalle vette altissime, ha segnato delle tappe nella canzone intimistica che, al pari di quelle dei suoi colleghi di allora, non hanno potuto essere preda di altri interpreti. Ogni suo disco è un successo di cassetta (e, finalmente, anche di critica, cessati finalmente gli estremismi dell'impegno a tutti i costi): le sue avventure musicali sono costellate di collaborazioni di prestigio (ricordiamo fra i tanti suoi arrangiatori Bacalov e Vangelis), di soddisfazioni anche non soltanto più economiche.
Dopo lo sfascio della scuola romana (sfascio almeno dal punto di vista della coesione e del lavoro insieme), anche Baglioni è emigrato ad altri lidi: oggi fa parte della scuderia di una delle più importanti multinazionali del disco; le sue canzoni sono successi anche nei paesi di lingua spagnola. Ma soprattutto, da tre anni sta in silenzio: un silenzio che verrà rotto fra pochissimo tempo, con l'uscita di un nuovo album inciso in Inghilterra. L'occasione ci sembrava buona per riaprire il discorso che da anni abbiamo con lui, partendo proprio dalle motivazioni del silenzio.

Dopo l'uscita di "E tu come stai?", Claudio Baglioni si fece vedere in pubblico per la solita tournée promozionale e poi sparì dalla scena. Perché questa fuga?

Non so perché, malgrado il successo dell'album, nacque un'atmosfera triste, di insuccesso, non so... una di quelle situazioni dall'apparenza impalpabile che esistono e non sai perché. Sostanzialmente sparii perché mi ribellai al fatto che fossero più importanti i miei dischi della mia persona: le due cose che, apparentemente potrebbero andare d'accordo, invece non lo vanno, perché, per i meccanismi cosiddetti promozionali, quelli che normalmente servono a supportare l'uscita di un disco, quest'ultimo diventa la cosa più importante. Ormai è diventato un gioco di dama con le mosse già fatte: le tournées, i passaggi televisivi, la radio, i filmati... E allora io mi ribellai in parte a quest'idea: già l'obbligo di fare questo disco ogni anno mi sembrava una sorta di limitazione... bene o male io durante l'anno vivo molto di più rispetto a quello che poi riesco tecnicamente ed artisticamente a fare dentro a quell'affare tondo. Allora mi sono chiesto: perché non posso avere degli spazi al di fuori del mio disco, sul mio personaggio, sul mio modo di essere? Tutto sommato penso che un disco non mi rappresenti completamente.

Ma perché si era formata (immagino nel tuo ambiente, sia personale che discografico) quest'ansia dell'insuccesso?
Il successo vero ce l'hai una volta sola: quando esplodi, quando esci fuori, quando fai qualcosa di veramente eclatante. Dopo di ché tu continui a fare delle cose che a volte sono di stasi, altre sono involutive o evolutive: però non hai mai... non esiste una condizione di successo continuo, mai più. Proprio perché non sei più vergine tu, non è più vergine la gente che ti ascolta: addirittura tanti comprano i tuoi dischi comunque. Poi ti dicono magari "Ah, io ricordo "Questo piccola grande amore": era meglio" e sono delle vere e proprie coltellate. E allora pensi. "Bisogna che lo faccio uguale": stavolta volevo fare un disco così poi mi sono detto "Ma che sto a 'ffa lo scemo che mi copio da solo?". Insomma comunque era nata quest'ansia che poi era anche un'ansia mia personale nei confronti dello scrivere e del comunicare: voglio assolutamente fare l'Artista. E' proprio vero: sennò sarei stato scemo ad aspettare tre anni, prima di fare un disco. Anzi mi maledico continuamente per non averlo fatto. Però ecco, cercavo di fare delle cose differenti: non so, in televisione cercavo di cantare dal vivo, magari stonando (anche per cercare di fare capire che cantavo dal vivo) ...insomma tutta un'atmosfera di ansie, di rinnovamento. E anch'io mi sono fatto prendere "Oddio, non funziona più niente, sono arrivato alla saturazione per cui per altri vent'anni continuerò a fare sempre le stesse cose"…

E poi come hai risolto?
Per farla breve, dopo questa caterva di ansie, dopo otto mesi di torture, di ricerca di novità, di incontri col marketing (questa parola rimarrà per me sempre una tortura)... a questo proposito ho scoperto che noi abbiamo dei rapporti con le case discografiche (che per carità sono amabilissime e ci permettono anche di guadagnare), dei rapporti che non sono tali: non so, io immagino che nel 1890 i rapporti fra editore e musicista fossero senz'altro più umani, due persone che si compenetravano, al limite che si volevano bene. Oggi invece è solo una questione di marketing: a parte che le case discografiche sono nei guai e, i cantanti si sono loculizzati tutti, nessuno suona più insieme, tutti hanno vergogna di quello che fanno, nessuno riesce a produrre tanto e quelli che invece ci riescono sono degli stupidi (non si possono fare delle produzioni continuative e sempre geniali, poi)...

Ma chi sono questi ultimi?
Tutti coloro che ad esempio vanno in televisione, i cosiddetti talentosi, quelli che sanno fare tutto, non so, i nuovi showmen... Una volta sono stato colpito da una frase di Carmelo Bene che puntualizzava la grande differenza fra talento e genio: il talento è una persona che fa tutto, il genio è quello che fa quello che può. Certe cose non ti vengono fuori: le cose "geniali" fra virgolette, vengono fuori quando tu riesci a fare solo quello e quello veramente ti appartiene. Il talento è un fatto di volontà, di grande intuizione, di terribile forza fisica, serenità familiare... pochi scazzi... i talentosi riescono ad andare avanti come treni. E io li guardo a volte con invidia: io sono tre anni che sto a discutere su ogni parola che scrivo, poi la cancello, poi la riscrivo ...come fa la gente a buttarsi cosi allo sbaraglio, non so, Sanremo, dove magari più della canzone diventa importante se la ripresa è odontoiatrica o meno...

Ma insomma, come è andata a finire?
Insieme all'ansia è nata l'insoddisfazione e quindi, contemporaneamente, di ricerca... di ricerca del deus-ex-machina, della persona che ti risolvesse con la bacchetta magica tutti i tuoi problemi, quello che finalmente ti capisce, il collaboratore, anche perché personalmente non mi diverto più molto ad entrare in sala d'incisione. Trovo che ormai sia una cosa aberrante... doversi immaginare il pubblico, stare lì davanti a un microfono con due dietro al vetro, come un pesce dentro l'acquario, con quei due - dicevo - che smanovrano, che oramai badano soltanto a questioni tecniche, che non sentono più niente. Guarda che ogni cosa, ogni nota si può fare in migliaia di modi differenti, comunicando veramente... se uno riuscisse a comunicare veramente cantando, a parlare, a dare una completezza vera ad ogni parola che dice perché magari il testo è interessante... ma poi non importa, potrebbe essere anche un testo non interessante ma se tu riuscissi a dire ogni parola in modo stupendo, cosa che per esempio riescono a fare gli Inglesi, i Brasiliani: ogni parola ha una sua sonorità addirittura onomatopeica (se dici mare ci vedi il mare). Allora terrorizzato dallo studio di registrazione (che un tempo amavo da morire dopo anni di session con sette chitarre sette - ai miei tempi c'erano solo chitarristi), ti metti lì e in quei dodici secondi in cui dura l'introduzione ti devi immaginare tutto, da chi lo sentirà a chi piacerà, come verrà ecc.., e tutto ciò è terribile. E' da matti fare dischi in questa maniera: io ad esempio non sopporto più di cantare sulla base... mai più, nemmeno in televisione. Tant'è vero che (questa volta non ci sono riuscito), ma la prossima volta lo voglio tare in diretta: non me ne frega niente delle stonature, qualcosa si rifarà...

Ma questo stato d'animo non dipende forse anche dal produttore?
Ma... il produttore, prima di tutto, non dovrebbe mai essere amico tuo. Ma poi non so nemmeno se è vero: non ho mai voluto fare delle produzioni e se le facessi preferirei stare vicino all'artista - e io lo so quello che soffre un artista, estremamente fragile, che più va avanti più si sente circondato da nemici (facciamo un lavoro normale che poi tanto normale non è quando lo facciamo) - preferirei, dicevo, stare vicino all'artista più come amico che per controllare la parte tecnica ecc. Soprattutto comunque non ci vorrebbe il musicista, ci vorrebbe uno normale, uno che ti vuole bene…

E allora cosa significa il produttore?
Ti posso dire cosa significa cercare un produttore: significa mettersi davanti ad una tavola con un'altra persona e aprire un discorso con "sai, fino ad adesso abbiamo fatto degli errori" alla fine ti sei bevuto otto bottiglie di vino, potresti anche fidanzarti con l'interlocutore.. e il giorno dopo lo odi perché devi fidanzarti con l'interlocutore... e il giorno dopo lo odi perché devi incominciare a lavorare e lui non ha capito assolutamente niente. Come non hai capito niente tu stesso. A un certo punto io mi sono detto: posso cantare come gli Americani, come i Sudamericani, posso fare Amalia Rodriguez, posso fare il canto armeno, le canzoni napoletane, posso fare il rock. Che faccio? Faccio Baglioni? E' la cosa più difficile da rifare: uno non si accetta mai completamente.

E tutti gli imitatori? Tutti quelli che oggi crescono nell'area Baglioni?
A me non fa molto piacere: molti potrebbero sentirsi gratificati. Io lo trovo abbastanza... anche se poi mi piace, mi ci rivedo. C'è qualcosa di più, però: a parte il dramma di noi vecchi artisti (ormai siamo da più di dieci anni sulla breccia) che siamo un po' tutti loculizzati - alcuni hanno fatto dei salotti autocelebrativi in cui incontrano della gente che non ha nulla a che vedere con la musica - E non mi venire a parlare dell'idea dei grandi discografici "suonare insieme": oggi significa mettere tre persone che si ammazzerebbero peggio di Tognazzi e Sordi a far finta di essere amici su un palco. Suonare insieme veramente è stupendo. Poi tutti ripetiamo sempre le stesse cose... poi ancora il pettegolezzo che regna sovrano... insomma io odio veramente questo mondo, il mondo degli addetti ai avori (bada bene non odio gli addetti ai lavori, ma odio tutto quello che fanno).

Ma qual è Il problema più grosso?
Quello che manca (o comunque che a me è mancato per molto tempo), è una dinamicità nel lavoro: ci si fossilizza, ci si masturba a livello massacro, poi magari c'è la scusa che dalla crisi viene fuori la creatività... ma soprattutto non ci si diverte più. Una volta ho scritto una canzoncina in cui c'era una frasetta che ancor oggi reputo abbastanza geniale. Ti ricordi "Strip-tease"? La frase era "lei non si spoglia più con fantasia" ... ed esprime il dramma di questo lavoro. In questo momento io sento una grande crisi, la trovo in tutta la produzione discografica in genere, in tutta la promozione che si fa, negli articoli che si scrivono, nelle previsioni di mercato... c'è un incarognimento spaventoso e non ci sono novità, non c'è più attenzione: tutto presto, tutto subito... tentativi: "beh, non è male". Non si può dire "non è male" di un prodotto, bisogna mirare al meglio, non ci si può autoghettizzare. Io mi vergogno: certe sere sono stato invitato e c'era il presidente della Corte Costituzionale, il pittore taldeitali e lo scrittore talaltro. Ed uno si sente un pezzente: "ecco, è arrivato quello delle canzonette". Ma non è vero, ma come si permettono: i pittori ormai i quadri li vendono a metraggio...

E' la solita storia della kultura…
Che vuoi, anch'io avevo degli sprazzi di piccola cultura, una volta. Non so, mi ricordavo Cincinnato, questo vangatore che poi fa il soldato e poi ritorna alla vanga. Anch'io avevo fatto quella canzone - che poi non c'entrava niente - ma l'avevo ammantata con questo titolo "Cincinnato" che tutti continuavano a chiamare "Cincinnati" (la malattia imperante era l'americanismo).

Eppure, una volta, tu eri apprezzato anche dai tuoi colleghi "impegnati"…
Sì, finché non ho avuto successo. Allora ero apprezzato dai normali (non so tipo Nicola di Bari per cui ero il beniamino), e da quelli che poi furono chiamati alternativi-impegnati: ero un ragazzetto normale che girava con l'autostop (che non era una cosa eroica: dovevo farlo per forza). Poi calcola anche che i vecchi cantanti giocano spesso al talent-scout: "questo è bravo, questo lo dovete prendere"… poi come cominci ad andare bene diventi uno stronzo.

Cos'è importante fare per un artista, alla luce di questi fatti?
Per me voglio continuare a cantare: in tutti questi anni non ho fatto altro che questo. Di tutto e per chiunque... ma non vorrei sembrare... una volta con Francesco De Gregori facemmo una cosa del genere: al Pantheon aprì la custodia della chitarra e ci mettemmo a suonare, arrivarono i giapponesi e ci riempirono di cento lire. Io ho fatto anche queste cose, ma ogni volta modificando il mio modo di cantare a seconda del pubblico che c'era: l'ho fatto nei ristoranti, ho cantato per gli Americani (una sera per un gruppo di questi ho cantato tutte canzoni napoletane)... insomma io ho un bisogno sfrenato di cantare e solo quello, secondo me è il sistema di cantare. Fare dischi è una cosa bella perché da la tua affermazione finale, però cantare veramente è ancora più bello perché impari continuamente...

segnalato da Antonio

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