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Rassegna stampa - domenica 4 aprile 1976 |
ultimo aggiornamento: 18 dicembre 2001 |
Pubblicato su
TV Sorrisi & Canzoni - 04/04/1976
Il mio diario sudamericano
di Claudio Baglioni
Quarantadue gradi all'ombra. Uno schiaffo tropicale per chi, come me, arriva dal freschetto di Roma. Il nome (Rio de Janeiro: fiume di gennaio) ti porterebbe fuori strada, ma occorre pensare che si tratta del gennaio di qui (cioè di lì): praticamente piena estate (e che estate!).
Arrivi e rimani scioccato almeno due giorni. Un po' per la faccenda del fuso orario e un po' perché sei fuso anche tu. Fuso e confuso dal sole, dalle automobili sgangherate, dall'aria densa di odori, dai bus impazziti, dal verde. Il verde, del resto, è una costante nel paesaggio carioca, dove mare, montagna e foresta si rincorrono in un impressionante carosello, cullando grattacieli, baracche e case coloniche.
A me, poi, succedeva una cosa strana: quella di non capire mai in quale punto di Rio mi trovassi. Come mi spostavo, manco a farlo apposta, eccoti lì il mare (pardon
l'oceano!).
Quando poi pensavo di essermelo lasciato alle spalle me lo rivedevo di fronte. Se, facendo i dovuti calcoli, pensavo, ed ero pronto a scommeterci, di averlo a destra, dopo un po' roba da non crederci, mi spuntava a sinistra. Non mi sarei meravigliato se una volta tanto, me lo fossi ritrovato proprio sopra la testa!
Le cose, comunque, sono tre: o è uno scherzo del caldo, o i carioca riescono a spostare il mare per ragioni turistiche con una velocità da speedy Gonzales
o è un mistero!
Parlare di Rio non è facile. E' stata definita la città più bella del mondo. Una città che sembra duecento città messe insieme, con duemila problemi e due milioni di contraddizioni. Città di bellezze naturali, città industriale, città del futuro, città del caos, città ricca, città dalle mille baracche, città felice, che piange. Una città che vive a ritmo di samba: un samba lento il giorno, un samba nervoso e interminabile la notte. Tutto è samba: ci si sveglia, si cammina, si lavora, ci si incontra, si aspetta, si ama, ci si lascia, si parla sambando. La musica è proprietà di tutti. E' come il pane, come l'acqua.
Che si può dire della gente di Rio
gente che vive, lavora, balla, cuce costumi, inventa canzoni un anno intero, aspettando il Carnevale e ognuno sogna, durante quattro giorni di pazzia, di gioia, di violenza, di essere un re?
Come definire questa gente che canta la propria tristezza, la rabbia, la fatica, la nostalgia (la saudade di tante canzoni) con un sorriso sulle labbra? Fa bene o male? Io non lo so!
So solo che questa gente esiste e sta qui
Perché non si pensi che la pro loco di Rio de Janeiro mi abbia pagato per dire queste cose, tralascio di parlare del caffè, del Pan di zucchero, dei tanga, del cioccolato. Dell'Hotel Copacabana, della macumaba, di Barra da Tijuca e della fejoada (una zuppa di fagioli).
Vorrei però dire due parole sul Maracanà, uno stadio spaventoso che ospita oltre 150 mila anime. Ero emozionato quando sono arrivato al centro del campo. Ho pensato alle tribune gremite di pubblico, a Pelè, al suo millesimo gol.
Pelè è un eroe nazionale per i brasiliani. Nella stessa considerazione viene tenuto Emerson Fittipaldi. E' per questo che guidano come pazzi scatenati, tanto che per passare da un marciapiedi all'altro ci si può mettere anche un quarto d'ora. Questa allegria (nel guidare) ce l'hanno anche i piloti delle linee aeree brasiliane. E' con uno di questi pazzerelloni che sono arrivato a San Paolo. Qui è cominciato il lavoro vero (anche per questa ragione forse il mio affetto è più tiepido per la città dei paulisti). Passare da Rio a San Paolo è come cambiare pianeta. San Paolo è tutta cemento, superstrade, gente frettolosa, regno della speculazione edilizia.
San Paolo ha solo 400 anni ma è cresciuta in fretta. E qui ho avvertito, più che a Rio, le enormi differenze sociali che caratterizzano un po' tutti i paesi dell'America Latina. Non esiste una classe media. Pochi veramente ricchi, molti veramente poveri.
L'edificio più alto di San Paolo si chiama Terrazza Italia, un grattacielo costruito da italiani; e, visto che siamo in tema, confesserò che una sera c'è stata una specie di rimpatriata con amici italiani in un ristorante italiano. Sarà stato per la voglia repressa di spaghetti, o per aver cantato in coro alcune canzoni romane, non lo so
sta di fatto che, a turno, c'era chi aveva gli occhi rossi, chi si soffiava il naso, chi cercava di guardare, distrattamente, altrove
Salutare San Paolo è stato meno doloroso che lasciare Rio, anche se alla fine m'ero affezionato a questa sua sgradevolezza.
E ti arrivo a Buenos Aires, la città del tango, la più colta e la più europea delle città del Sud America. La gente qui è molto diversa da quella brasiliana.
Sembrano meno vivi, meno sanguigni. Eppure la loro musica è ancora più malinconica, più struggente e forse più latina della musica brasiliana. C'è un quartiere nella capitale Argentina, La Boca, che custodisce uno stile archetttonico piuttosto originale: una serie di case attaccate una all'altra, in modo disordinato, fatte, quasi interamente, di lamiera, di latta, con balconi improvvisati, sacle all'aperto, pitture murali, statue, porte e finestre, nessuna uguale all'altra. L'insieme è colorato con tutte le tinte di questo mondo, specialmente le più vivaci, accostate in maniera caotica. C'è anche la Casa Rosada, residenza del Presidente della Repubblica che, al contrario, è di un rosa tenue e in tinta unita, comunque, a farne di tutti i colori ci pensano dentro
Buenos Aires, cioè buone arie.. per tutti meno per gli argentini. Una svalutazione della loro moneta del 500 per cento non è decisamente una cosa allegra. Ma le buone arie le ritrovi tra gli alberi e i laghi artificiali cui Buenos Aires non manca. Altra cosa che non manca in Argentina è la carne. Un giorno, in un ristorante, ho chiesto un piatto tipico di carne. Una fettina di 45 cm di lunghezza e 25 cm di larghezza, molto sottile e buona. Si chiamava lenzuolo di carne.
Qui tutto è grande!
Ho domandato per informazioni ad un amico argentino quanto fosse distante un bel posto fuori Buenos Aires, tipico, da visitare insomma. M'ha risposto: Eh, non molto
1600 km circa...
A Buenos Aires ho ritrovato, dopo 12 anni, il mio primo e unico maestro di pianoforte, Nicolas Amato. Lo stano è che, dopo dieci minuti di parla, racconta, che hai fatto?, mi è sembrato che tutto questo tempo non fosse mai passato.
segnalato da Annamaria Gnisci